Talvolta le più o meno stringate informazioni che Isidoro fissa nelle Etimologie altro non sono che una testimonianza del glorioso passato giuridico di Roma, di quella antica tradizione di iura e leges che pur costituisce le solide fondamenta culturali su cui sono costruiti non solo il testo del Breviario di Alarico, alla cui osservanza sono ancora tenuti, principalmente (ma non esclusivamente), i Romani della Spagna visigota dei primi decenni del VII secolo, ma anche molte delle disposizioni dello stesso Codice Euriciano (anche per come era venuto modificandosi con l’aggiunta di sempre nuove leggi di differenti monarchi visigoti), cui devono attenersi in primo luogo i Goti (ma non solo) che con quelli si trovano a convivere, entrambi sudditi di un unico regnum. Talaltra deve credersi che la nozione giuridica data dall’enciclopedia isidoriana sia del tutto attuale. Isidoro, che appartiene a una illustre famiglia ispano romana, è prima di tutto consigliere del re: egli auspica un rafforzamento della monarchia gota. Il Diritto che si propone di illustrare rappresenta un importante strumento che può proficuamente essere impiegato per la missione di cui si sente investito in prima persona: l’edificazione di una nuova societas christianorum, finalmente indipendente dalle ‘nazioni’ vicine e soggetto politico autonomo, i cui sudditi non saranno più chiamati a osservare leggi diverse, a seconda della loro differente origine gota o romana, ma un'unica legge. Ciò, nella visione isidoriana, doveva valere anzitutto per il diritto pubblico in generale e per il diritto penale, sostanziale e processuale, in particolare. Isidoro si occupa del processo nel titolo XV De foro del libro XVIII. I ruoli del giudice e dell’accusatore, nella sua visione, appaiono ben differenziati; al giudice è affidato un compito altissimo, ma quello soltanto: è colui che deve esaminare la questione in conformità al diritto (iure disceptet), il che per Isidoro, in buona sostanza, implica essenzialmente, che quello è tenuto a giudicare la causa secondo giustizia. L’accusatore, invece, è chi chiama formalmente in giudizio il reus. Che egli sia tenuto ad argomentare e provare le sue asserzioni dinanzi al giudice, qui, peraltro, non è detto. Ma una qualche luce per il chiarimento di tale questione può venire da una riflessione sulla nozione isidoriana di calunniatore: il promotore di un’accusa falsa è detto calunniatore, dal verbo calvi, che significa ingannare e raggirare. Il concetto di calunnia qui presupposto ben corrisponde a quello che, sanzionato penalmente per la prima volta dalla repubblicana lex Remnia de calumniatoribus (il crimen nasceva per punire gli abusi della libertà di accusare ormai riconosciuta al quivis de populo), ancora si trova attestato nelle costituzioni del Teodosiano (in particolare in CT. 9.1.19 pr) e nella Interpretatio che sovente le accompagna nel testo del Breviarium. Ancora nel V secolo e poi finché e dove fu in vigore il Breviarium Alaricianum (e dunque anche nella Spagna degli anni in cui Isidoro componeva la sua opera più impegnativa) l’accusatore era obbligato a provare la sua denuncia se voleva evitare la condanna ‘quasi automatica’ per calunnia, cui sarebbe potuto sfuggire, infatti, solo riuscendo a dimostrare che al momento della proposizione dell’accusa era in realtà convinto del suo buon fondamento. Un tale accusator non può considerarsi quale mero propulsore di una procedura di carattere tendenzialmente inquisitorio, in cui l’indagine sarebbe sostanzialmente nelle mani e nella discrezionalità dell’organo giudicante; egli è tenuto alla dimostrazione della tesi accusatoria, gravando altrimenti su di lui la temibile minaccia del castigo per calunnia, il cui processo non potrà evitare: l’accusa, di cui si parla nelle foti esaminate, non può, insomma, in alcun modo stimarsi una mera notitia criminis, che avrebbe viceversa caricato il giudice del pesante onere di ricercare le prove. Principi simili furono nuovamente recepiti nella legge emanata dal re Chiosvindo poco meno o poco più di un decennio dalla morte di Isidoro: il principio accusatorio nato molti secoli prima a Roma all’interno del sistema delle quaestiones perpetuae, ancora vigente nell’impero romano di età tardoantica (pur in concorrenza ormai con ipotesi più o meno marginali che ammettevano l’opposto principio inquisitorio), continuava a ricevere applicazione persino nella prima metà del VII secolo, nei termini e nei limiti che si sono detti, nel regno della Spagna visigota: l’opera legislativa dei suoi monarchi senz’altro subì la forte influenza del diritto romano, secondo i testi tramandati dal Breviarium di Alarico.
Pietrini, S. (2014). «Iudex», «accusator» e «calumniator» in Isidoro di Siviglia e nel diritto visigoto. INDEX. QUADERNI CAMERTI DI STUDI ROMANISTICI, 42, 446-460.
«Iudex», «accusator» e «calumniator» in Isidoro di Siviglia e nel diritto visigoto
PIETRINI, STEFANIA
2014-01-01
Abstract
Talvolta le più o meno stringate informazioni che Isidoro fissa nelle Etimologie altro non sono che una testimonianza del glorioso passato giuridico di Roma, di quella antica tradizione di iura e leges che pur costituisce le solide fondamenta culturali su cui sono costruiti non solo il testo del Breviario di Alarico, alla cui osservanza sono ancora tenuti, principalmente (ma non esclusivamente), i Romani della Spagna visigota dei primi decenni del VII secolo, ma anche molte delle disposizioni dello stesso Codice Euriciano (anche per come era venuto modificandosi con l’aggiunta di sempre nuove leggi di differenti monarchi visigoti), cui devono attenersi in primo luogo i Goti (ma non solo) che con quelli si trovano a convivere, entrambi sudditi di un unico regnum. Talaltra deve credersi che la nozione giuridica data dall’enciclopedia isidoriana sia del tutto attuale. Isidoro, che appartiene a una illustre famiglia ispano romana, è prima di tutto consigliere del re: egli auspica un rafforzamento della monarchia gota. Il Diritto che si propone di illustrare rappresenta un importante strumento che può proficuamente essere impiegato per la missione di cui si sente investito in prima persona: l’edificazione di una nuova societas christianorum, finalmente indipendente dalle ‘nazioni’ vicine e soggetto politico autonomo, i cui sudditi non saranno più chiamati a osservare leggi diverse, a seconda della loro differente origine gota o romana, ma un'unica legge. Ciò, nella visione isidoriana, doveva valere anzitutto per il diritto pubblico in generale e per il diritto penale, sostanziale e processuale, in particolare. Isidoro si occupa del processo nel titolo XV De foro del libro XVIII. I ruoli del giudice e dell’accusatore, nella sua visione, appaiono ben differenziati; al giudice è affidato un compito altissimo, ma quello soltanto: è colui che deve esaminare la questione in conformità al diritto (iure disceptet), il che per Isidoro, in buona sostanza, implica essenzialmente, che quello è tenuto a giudicare la causa secondo giustizia. L’accusatore, invece, è chi chiama formalmente in giudizio il reus. Che egli sia tenuto ad argomentare e provare le sue asserzioni dinanzi al giudice, qui, peraltro, non è detto. Ma una qualche luce per il chiarimento di tale questione può venire da una riflessione sulla nozione isidoriana di calunniatore: il promotore di un’accusa falsa è detto calunniatore, dal verbo calvi, che significa ingannare e raggirare. Il concetto di calunnia qui presupposto ben corrisponde a quello che, sanzionato penalmente per la prima volta dalla repubblicana lex Remnia de calumniatoribus (il crimen nasceva per punire gli abusi della libertà di accusare ormai riconosciuta al quivis de populo), ancora si trova attestato nelle costituzioni del Teodosiano (in particolare in CT. 9.1.19 pr) e nella Interpretatio che sovente le accompagna nel testo del Breviarium. Ancora nel V secolo e poi finché e dove fu in vigore il Breviarium Alaricianum (e dunque anche nella Spagna degli anni in cui Isidoro componeva la sua opera più impegnativa) l’accusatore era obbligato a provare la sua denuncia se voleva evitare la condanna ‘quasi automatica’ per calunnia, cui sarebbe potuto sfuggire, infatti, solo riuscendo a dimostrare che al momento della proposizione dell’accusa era in realtà convinto del suo buon fondamento. Un tale accusator non può considerarsi quale mero propulsore di una procedura di carattere tendenzialmente inquisitorio, in cui l’indagine sarebbe sostanzialmente nelle mani e nella discrezionalità dell’organo giudicante; egli è tenuto alla dimostrazione della tesi accusatoria, gravando altrimenti su di lui la temibile minaccia del castigo per calunnia, il cui processo non potrà evitare: l’accusa, di cui si parla nelle foti esaminate, non può, insomma, in alcun modo stimarsi una mera notitia criminis, che avrebbe viceversa caricato il giudice del pesante onere di ricercare le prove. Principi simili furono nuovamente recepiti nella legge emanata dal re Chiosvindo poco meno o poco più di un decennio dalla morte di Isidoro: il principio accusatorio nato molti secoli prima a Roma all’interno del sistema delle quaestiones perpetuae, ancora vigente nell’impero romano di età tardoantica (pur in concorrenza ormai con ipotesi più o meno marginali che ammettevano l’opposto principio inquisitorio), continuava a ricevere applicazione persino nella prima metà del VII secolo, nei termini e nei limiti che si sono detti, nel regno della Spagna visigota: l’opera legislativa dei suoi monarchi senz’altro subì la forte influenza del diritto romano, secondo i testi tramandati dal Breviarium di Alarico.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.
https://hdl.handle.net/11365/982344
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