In Marx si trovano due teorie del contratto di lavoro. La prima lo considera come un contratto di compravendita di una merce, la seconda come un contratto relazionale che istituisce un rapporto sociale. Nella prima Marx sostiene che il lavoratore cederebbe, in cambio del salario, una merce che si configura come un flusso di lavoro emanante dallo stock di forza-lavoro. Di qui la necessità di considerare il lavoro come una merce sia pure astratta, però con le caratteristiche di un’astrazione “naturale” e con le proprietà di una forza produttiva. Lo sfruttamento emergerebbe a causa del fatto che il valore del flusso di forza-lavoro è inferiore alla capacità valorificante del lavoro astratto. La teoria produce varie aporie, non ultima quella portata alla luce dal problema della trasformazione dei valori in prezzi. Ha chiare origini hegeliane. Da una parte è riconducibile alla dottrina del circolo presupposto-posto, per la quale una categoria universale genera realmente i presupposti fenomenici in cui si manifesta. Dall’altra è fortemente condizionata dalla tendenza di Hegel a ridurre tutti i contratti, compreso quello di lavoro, a contratti di compravendita di merci. Nella seconda teoria il contratto di lavoro consiste non in un patto di scambio di merci, bensì in una transazione che crea le condizioni per la sottomissione del lavoratore al capitalista e la sussunzione delle sue forze produttive sotto il capitale. La teoria non è sviluppata da Marx organicamente, ma lo è quanto basta per farne la più illuminante anticipazione della moderna concezione del contratto di lavoro come istituzione che genera un rapporto d’autorità. È di grande interesse perché non va soggetta a critiche di essenzialismo, naturalismo e ipostatizzazione e soprattutto perché è in grado di sostenere una coerente e realistica teoria del valore e dello sfruttamento. Lo sfruttamento, in questo approccio, è basato sul rapporto di potere che governa l’uso del lavoratore nel processo produttivo. Il lavoro astratto ora è visto non come una forza produttiva bensì come un rapporto sociale, ed è considerato un’astrazione che è reale in senso storico-sociale invece che in senso “naturale”.
Screpanti, E. (2009). Marx e il contratto di lavoro: dall'astrazione reale alla sussunzione formale. KOINÉ, 16, 131-168.
Marx e il contratto di lavoro: dall'astrazione reale alla sussunzione formale
SCREPANTI, ERNESTO
2009-01-01
Abstract
In Marx si trovano due teorie del contratto di lavoro. La prima lo considera come un contratto di compravendita di una merce, la seconda come un contratto relazionale che istituisce un rapporto sociale. Nella prima Marx sostiene che il lavoratore cederebbe, in cambio del salario, una merce che si configura come un flusso di lavoro emanante dallo stock di forza-lavoro. Di qui la necessità di considerare il lavoro come una merce sia pure astratta, però con le caratteristiche di un’astrazione “naturale” e con le proprietà di una forza produttiva. Lo sfruttamento emergerebbe a causa del fatto che il valore del flusso di forza-lavoro è inferiore alla capacità valorificante del lavoro astratto. La teoria produce varie aporie, non ultima quella portata alla luce dal problema della trasformazione dei valori in prezzi. Ha chiare origini hegeliane. Da una parte è riconducibile alla dottrina del circolo presupposto-posto, per la quale una categoria universale genera realmente i presupposti fenomenici in cui si manifesta. Dall’altra è fortemente condizionata dalla tendenza di Hegel a ridurre tutti i contratti, compreso quello di lavoro, a contratti di compravendita di merci. Nella seconda teoria il contratto di lavoro consiste non in un patto di scambio di merci, bensì in una transazione che crea le condizioni per la sottomissione del lavoratore al capitalista e la sussunzione delle sue forze produttive sotto il capitale. La teoria non è sviluppata da Marx organicamente, ma lo è quanto basta per farne la più illuminante anticipazione della moderna concezione del contratto di lavoro come istituzione che genera un rapporto d’autorità. È di grande interesse perché non va soggetta a critiche di essenzialismo, naturalismo e ipostatizzazione e soprattutto perché è in grado di sostenere una coerente e realistica teoria del valore e dello sfruttamento. Lo sfruttamento, in questo approccio, è basato sul rapporto di potere che governa l’uso del lavoratore nel processo produttivo. Il lavoro astratto ora è visto non come una forza produttiva bensì come un rapporto sociale, ed è considerato un’astrazione che è reale in senso storico-sociale invece che in senso “naturale”.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.
https://hdl.handle.net/11365/7248
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