La posizione di Alberico Gentili riguardo alla compilazione giustinianea e alle svalutazioni che di essa erano state fatte da alcuni umanisti, era già stata elaborata nei Dialogi. Né può qui affermarsi che il giurista di San Ginesio abbia sostanzialmente modificato alcuni dei suoi principali convincimenti. Egli continua ancora a ritenere di esser di fronte ad un diritto codificato, «a un insieme di testi legislativi consegnato nei volumina e sancito dall’autorità imperiale»: ne è la dimostrazione più evidente l’approccio al Corpus civilistico desumibile dalla lettura delle prime pagine della Disputatio de libris iuris civilis, 1605, nelle quali il Gentili esamina le singole parti della compilazione giustinianea, sulla base delle rispettive costituzioni di promulgazione. L’equiparazione dell’attività legislativa di Gregorio IX o di Bonifacio VIII con quella di Giustiniano – una equiparazione che la critica recente ha potuto discutere sul piano storiografico appropriatamente individuandone le sostanziali differenze - dimostra in ogni caso che, per Alberico, il Corpus civilistico, avuto riguardo alla potestas del legislatore e alle tecniche “codificatorie” utilizzate, ha le stesse caratteristiche delle collezioni canoniche: è cioè il frutto di un’attività di riordino del materiale legislativo, ottenuta attraverso l’eliminazione di testi ritenuti superflui, la modifica di alcuni di essi, la scrittura di leggi nuove; lo scopo era, come per ciascuna delle collezioni canoniche (come ad esempio il Liber Extra e il Sextus), giungere ad una sistemazione complessiva ed armonica del Corpus legislativo: una sistemazione unitariamente concepita. Se questa era la volontà del legislatore – e il legislatore giustinianeo l’aveva espressa nelle costituzioni di promulgazione delle singole parti della collezione – l’interprete doveva necessariamente muovere dal presupposto metodologico della inesistenza di antinomie: un convincimento che Alberico aveva espresso nella redazione dei Dialogi: «At quid referam novitiorum commenta, si prostant, mihi non placent, ipsi non sunt inter se concordes. Mea igitur ea est compendiosa sententia, ut quicquid non sit expresse emendatum, aut correctum, id minime dicatur pugnare». Pensiero ribadito nella Disputatio de libris iuris civilis, alla luce della volontà espressa dal legislatore bizantino nel promulgare la sua compilazione: «...Primo, quoniam, nullas esse antinomias in libris Iustiniani, credere debes ipsi (Alberico allega in marg.: Const. Tanta § 10 ; cfr. Cod. 1.17.2.10) ita adfirmanti imperatori, et mihi docenti aduersum nouos aliquot interpretes nostros». Per Alberico muovere dal presupposto metodologico dell’inesistenza di antinomie non significa, ovviamente, negarne la realtà; vuol dire, diversamente, porsi in relazione col testo legislativo per penetrarne il significato, verificare fino in fondo se i testi siano o meno conciliabili perché - e l’imprestito è dai Parerga dell’Alciato – nella retta conciliazione delle decisioni discrepanti è la «maxima iuris nostri intelligendi difficultas»: «...Et sum itaque cum Alciato, qui veteres non tulit interpretes, quod frequenter etiam scripserint, ius vetus a novo correctum...». Sulla base di questa affermazione la dottrina ha potuto dedurre che Alberico «contesta per tutti quei casi nei quali manchi un’esplicita dichiarazione testuale, la legittimità dell’induzione che il ius vetus sia stato corretto dal novum». Occorre aggiungere, però, dopo aver ampliato l’indagine alla Disputatio de libris iuris civilis, che qui, pur in presenza di una analoga visione metodologica tendente ad escludere l’esistenza di contraddizioni, Alberico non nega, ad esempio, che vi possano essere antinomie fra Digesto e Istituzioni; una questione che dovrebbe esser risolta facendo sempre e comunque ricorso alla sapienza del primo: sia per l’autorevolezza del testo, sia perché, per il Gentili, il manuale giustinianeo rappresenta una pura e semplice epitome delle Pandette. Il convincimento che l’opera di Giustiniano costituisse una legislazione unitariamente concepita, che il giurista dovesse limitarsi alla sua interpretazione senza peraltro porsi alla ricerca dei testi originali dei giuristi antichi, contestando l’utilità della ricostruzione del pensiero della giurisprudenza romana e del diritto classico, nettamente differenziando la conoscenza scientifica del diritto giustinianeo dallo studio storico del diritto, non poteva però far tralasciare al Gentili uno dei problemi che avevano travagliato il secolo appena trascorso: la costituzione filologicamente corretta del Corpus giustinianeo. Il problema era stato da lui parzialmente affrontato nei Dialogi dove non solo non contestava la legittimità e il valore della critica filologica dei testi né della restituzione diplomatica del loro dettato, ma anzi esplicitamente riconosceva l’importanza degli studi in questo settore, pur affermando che questo compito non costituiva oggetto specifico della scienza giuridica, ed aspramente criticando chi, come il Cuiacio, aveva ecceduto nelle emendazioni, talché le sue Observationes et emendationes «videntur esse tamquam flosculi omnium lucubrationum suarum». L’approccio gentiliano nella Disputatio de libris iuris civilis appare, invece, almeno in parte diverso. Le lunghe pagine dedicate all’illustrazione degli studi condotti sulla Littera Florentina con l’adesione alle conclusioni raggiunte da Antonio Agustín; la necessità di inserire nel Corpus le parti greche e di procedere, comunque, nella lettura della Parafrasi greca delle Istituzioni di Teofilo, senza peraltro modificare arbitrariamente il testo delle Istituzioni giustinianee, dimostrano la consapevolezza che, proprio in adesione alle disposizioni di Giustiniano – le quali avrebbero indotto ad imputare di falso coloro che avessero apportato modifiche o aggiunte al testo – occorreva produrre ogni sforzo per costituire un testo il più aderente possibile a quello promulgato dal legislatore bizantino. I problemi di critica del testo diventano, così, a differenza che nei Dialogi, argomento di riflessione, di studio, di approfondimento, per un Alberico Gentili che, almeno in parte, ha modificato i suoi precedenti convincimenti.

Minnucci, G. (2010). Per una rilettura del metodo gentiliano. In Alberico Gentili (1552-1608) la tradizione giuridica perugina e la fondazione del diritto internazionale. Atti dell'incontro di studio (Perugia, 10 ottobre 2008), a cura di F. Treggiari (pp.29-56). Ist. Studi Economici Giuridici G. Scaduto srl Ist. Studi Economici Giuridici G. Scaduto Via Margutta, 1/A Cap 00187 , Roma (RM) - IT.

Per una rilettura del metodo gentiliano

MINNUCCI, GIOVANNI
2010-01-01

Abstract

La posizione di Alberico Gentili riguardo alla compilazione giustinianea e alle svalutazioni che di essa erano state fatte da alcuni umanisti, era già stata elaborata nei Dialogi. Né può qui affermarsi che il giurista di San Ginesio abbia sostanzialmente modificato alcuni dei suoi principali convincimenti. Egli continua ancora a ritenere di esser di fronte ad un diritto codificato, «a un insieme di testi legislativi consegnato nei volumina e sancito dall’autorità imperiale»: ne è la dimostrazione più evidente l’approccio al Corpus civilistico desumibile dalla lettura delle prime pagine della Disputatio de libris iuris civilis, 1605, nelle quali il Gentili esamina le singole parti della compilazione giustinianea, sulla base delle rispettive costituzioni di promulgazione. L’equiparazione dell’attività legislativa di Gregorio IX o di Bonifacio VIII con quella di Giustiniano – una equiparazione che la critica recente ha potuto discutere sul piano storiografico appropriatamente individuandone le sostanziali differenze - dimostra in ogni caso che, per Alberico, il Corpus civilistico, avuto riguardo alla potestas del legislatore e alle tecniche “codificatorie” utilizzate, ha le stesse caratteristiche delle collezioni canoniche: è cioè il frutto di un’attività di riordino del materiale legislativo, ottenuta attraverso l’eliminazione di testi ritenuti superflui, la modifica di alcuni di essi, la scrittura di leggi nuove; lo scopo era, come per ciascuna delle collezioni canoniche (come ad esempio il Liber Extra e il Sextus), giungere ad una sistemazione complessiva ed armonica del Corpus legislativo: una sistemazione unitariamente concepita. Se questa era la volontà del legislatore – e il legislatore giustinianeo l’aveva espressa nelle costituzioni di promulgazione delle singole parti della collezione – l’interprete doveva necessariamente muovere dal presupposto metodologico della inesistenza di antinomie: un convincimento che Alberico aveva espresso nella redazione dei Dialogi: «At quid referam novitiorum commenta, si prostant, mihi non placent, ipsi non sunt inter se concordes. Mea igitur ea est compendiosa sententia, ut quicquid non sit expresse emendatum, aut correctum, id minime dicatur pugnare». Pensiero ribadito nella Disputatio de libris iuris civilis, alla luce della volontà espressa dal legislatore bizantino nel promulgare la sua compilazione: «...Primo, quoniam, nullas esse antinomias in libris Iustiniani, credere debes ipsi (Alberico allega in marg.: Const. Tanta § 10 ; cfr. Cod. 1.17.2.10) ita adfirmanti imperatori, et mihi docenti aduersum nouos aliquot interpretes nostros». Per Alberico muovere dal presupposto metodologico dell’inesistenza di antinomie non significa, ovviamente, negarne la realtà; vuol dire, diversamente, porsi in relazione col testo legislativo per penetrarne il significato, verificare fino in fondo se i testi siano o meno conciliabili perché - e l’imprestito è dai Parerga dell’Alciato – nella retta conciliazione delle decisioni discrepanti è la «maxima iuris nostri intelligendi difficultas»: «...Et sum itaque cum Alciato, qui veteres non tulit interpretes, quod frequenter etiam scripserint, ius vetus a novo correctum...». Sulla base di questa affermazione la dottrina ha potuto dedurre che Alberico «contesta per tutti quei casi nei quali manchi un’esplicita dichiarazione testuale, la legittimità dell’induzione che il ius vetus sia stato corretto dal novum». Occorre aggiungere, però, dopo aver ampliato l’indagine alla Disputatio de libris iuris civilis, che qui, pur in presenza di una analoga visione metodologica tendente ad escludere l’esistenza di contraddizioni, Alberico non nega, ad esempio, che vi possano essere antinomie fra Digesto e Istituzioni; una questione che dovrebbe esser risolta facendo sempre e comunque ricorso alla sapienza del primo: sia per l’autorevolezza del testo, sia perché, per il Gentili, il manuale giustinianeo rappresenta una pura e semplice epitome delle Pandette. Il convincimento che l’opera di Giustiniano costituisse una legislazione unitariamente concepita, che il giurista dovesse limitarsi alla sua interpretazione senza peraltro porsi alla ricerca dei testi originali dei giuristi antichi, contestando l’utilità della ricostruzione del pensiero della giurisprudenza romana e del diritto classico, nettamente differenziando la conoscenza scientifica del diritto giustinianeo dallo studio storico del diritto, non poteva però far tralasciare al Gentili uno dei problemi che avevano travagliato il secolo appena trascorso: la costituzione filologicamente corretta del Corpus giustinianeo. Il problema era stato da lui parzialmente affrontato nei Dialogi dove non solo non contestava la legittimità e il valore della critica filologica dei testi né della restituzione diplomatica del loro dettato, ma anzi esplicitamente riconosceva l’importanza degli studi in questo settore, pur affermando che questo compito non costituiva oggetto specifico della scienza giuridica, ed aspramente criticando chi, come il Cuiacio, aveva ecceduto nelle emendazioni, talché le sue Observationes et emendationes «videntur esse tamquam flosculi omnium lucubrationum suarum». L’approccio gentiliano nella Disputatio de libris iuris civilis appare, invece, almeno in parte diverso. Le lunghe pagine dedicate all’illustrazione degli studi condotti sulla Littera Florentina con l’adesione alle conclusioni raggiunte da Antonio Agustín; la necessità di inserire nel Corpus le parti greche e di procedere, comunque, nella lettura della Parafrasi greca delle Istituzioni di Teofilo, senza peraltro modificare arbitrariamente il testo delle Istituzioni giustinianee, dimostrano la consapevolezza che, proprio in adesione alle disposizioni di Giustiniano – le quali avrebbero indotto ad imputare di falso coloro che avessero apportato modifiche o aggiunte al testo – occorreva produrre ogni sforzo per costituire un testo il più aderente possibile a quello promulgato dal legislatore bizantino. I problemi di critica del testo diventano, così, a differenza che nei Dialogi, argomento di riflessione, di studio, di approfondimento, per un Alberico Gentili che, almeno in parte, ha modificato i suoi precedenti convincimenti.
2010
9788895448107
Minnucci, G. (2010). Per una rilettura del metodo gentiliano. In Alberico Gentili (1552-1608) la tradizione giuridica perugina e la fondazione del diritto internazionale. Atti dell'incontro di studio (Perugia, 10 ottobre 2008), a cura di F. Treggiari (pp.29-56). Ist. Studi Economici Giuridici G. Scaduto srl Ist. Studi Economici Giuridici G. Scaduto Via Margutta, 1/A Cap 00187 , Roma (RM) - IT.
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