Sin dal suo arrivo in Inghilterra Albefico Gentili è al centro di una fitta corrispondenza con giuristi, teologi, uomini di cultura che, attraverso il rapporto epistolare, sollevano questioni di natura giuridica. Buona parte di questa corrispondenza viene pubblicata a Londra nel 1583-84 nei Lectionum et epistolarum quae ad ius civile pertinent libri I-IV. Quest’opera, ma soprattutto quella di poco precedente, dal titolo De iuris interpretibus dialogi sex, (Londini 1582), hanno spesso indotto la storiografia ad annoverarlo fra gli strenui difensori del mos italicus iura docendi ed un acerrimo avversario delle novità prodotte dall’umanesimo giuridico: un’opinione talvolta fondata su una pura e semplice lettura dei soli titoli dei sei Dialoghi. Gli anni successivi sono densi di attività: Gentili. pubblica, infatti, il monumentale volume, in tre libri, rappresentato dal De iure belli (Hanoviae 1598): l’opera per la quale è annoverato fra i padri fodatori del diritto internazionale moderno. La tensione fra tradizione e innovazione, fra continuità e discontinuità caratterizza la produzione scientifica del G. nell’ultimo decennio della sua vita allorquando torna a riflettere sul metodo del giurista e sul valore autoritativo dei due corpora iuris. Dopo aver rivisto, più volte, i giudizi negativi espressi nei Dialogi su alcuni degli umanisti più autorevoli, facendo spesso ricorso alle loro elaborazioni dottrinali (ad esempio nel Commentario ad legem Juliam de adluteriis),il Gentili torna su questioni metodologiche nel primo libro del De nuptiis (Hanoviae 1601) intitolato “qui est de interprete”: testo nel quale definisce il ruolo dei teologi e dei giuristi nel mutato quadro politico e religioso europeo. Alla luce di quest’opera, il silete theologi in munere alieno del De iure belli (I, xii) non può essere inteso come un’aprioristica ingiunzione ai teologi di non occuparsi dell’uomo e delle sue azioni, ma come un’espressione che tenta di definirne il ruolo comparandolo con quello dei giuristi i quali, peraltro, non possono ignorare quanto, da secoli, la teologia ha apportato alla storia della civiltà. Ai primi, sommi interpreti della Sacra Scrittura, compete la comprensione dei precetti divini regolatori delle azioni dell’uomo col fine esclusivo di guidarne la coscienza (foro interno); ai giuristi resta il compito di “definire explicate quid in quaque quaestione est iuris”. A differenza di quanto aveva teorizzato nei Dialogi del 1582 - nei quali aveva sostenuto che per il giurista erano necessari i soli libri della civilis prudentia, mentre non occorreva una profonda conoscenza del latino o del greco, né della dialettica, della storia e delle altre discipline - i principii regolatori dei comportamenti umani, in foro esterno, sono ora desumibili, per Gentili, non solo dalla compilazione giustinianea (della quale farà una attenta illustrazione, soffermandosi anche sui profili eminentemente filologici, nella Disputatio de libris iuris civilis, Hanoviae 1605) e dalle altre fonti normative (fra le quali avrà un ruolo di rilievo anche il diritto canonico cui G. dedicherà una apposita Disputatio de libris iuris canonici, Hanoviae 1605;), ma anche dalle elaborazioni che la scienza giuridica e le altre arti e scienze (storia, filologia, filosofia e teologia) da lui ritenute superflue in un non troppo lontano passato, avevano prodotto in un secolare cammino, teso a separare aequum ab iniquo, iustum ab iniusto, ed a ricercare, quindi, i cardini sui quali fondare l’edificio dell’umana convivenza. Lo studio della storia, la conoscenza del pensiero filosofico e teologico degli antichi autori, l’analisi filologica del testo normativo che non può prescindere da una conoscenza delle lingue greca e latina, un esame accurato delle opere dovute ai grandi giuristi fra le quali debbono essere necessariamente comprese quelle dovute alle menti più brillanti ed autorevoli del complesso movimento di rinnovamento rappresentato dall’umanesimo giuridico, appaiono ora alcuni degli strumenti imprescindibili per l’interpres iuris della prima età moderna. Un ruolo che non può più essere affidato al canonista o al civilista, una suddivisione che in un’epoca caratterizzata da fortissimi contrasti politici e religiosi risulta inaccettabile e, tanto meno, per i motivi che si sono sopra evidenziati, al teologo, ma all’interpres iuris. Questi, però, non agisce da puro e semplice interprete del diritto giustinianeo («corruptus est usus disciplinae nostrae: qui non istam artem aequi, et boni, sed legum Iustinianicarum notitiam solam profitetur» (De nuptiis, p. 57) ma, alla luce del frammento di Ulpiano (Dig. 1.1.1), espressamente citato e fatto proprio da Alberico, quale sacerdos iustitiae, l’unico in grado di proporsi come mediatore e traduttore..., come tramite necessario a intendere il diritto nella sua dimensione più alta e inviolabile. Il giurista di San Ginesio, nel redigere le sue ultime opere, si presenta come l’erede della tradizione universalistica del diritto comune e, contestualmente, come il tramite del rinnovamento della scienza giuridica che si affaccia al secolo nuovo: la ricerca della giustizia, non è più esclusivamente frutto di una interpretazione evolutiva del diritto giustinianeo, ma è il risultato di uno sforzo ermeneutico condotto dal giurista che, grazie alle conoscenze enciclopediche ormai acquisite, può effettivamente proporsi come l’unico intellettuale in grado di formulare principii universalmente validi.

Minnucci, G. (2008). Diritto canonico, diritto civile e teologia nel I Libro del "De nuptiis" di Alberico Gentili. In Proceedings of the Twelfth International Congress of Medieval Canon Law, Washington D.C. 1-7 august 2004, ed- by U-R. Blumenthal, K. Pennington, A. A. Larson (Monumenta Iuris Canonici, Series C: Subsidia, 13) (pp.423-445). Biblioteca Apostolica Vaticana.

Diritto canonico, diritto civile e teologia nel I Libro del "De nuptiis" di Alberico Gentili

MINNUCCI, GIOVANNI
2008-01-01

Abstract

Sin dal suo arrivo in Inghilterra Albefico Gentili è al centro di una fitta corrispondenza con giuristi, teologi, uomini di cultura che, attraverso il rapporto epistolare, sollevano questioni di natura giuridica. Buona parte di questa corrispondenza viene pubblicata a Londra nel 1583-84 nei Lectionum et epistolarum quae ad ius civile pertinent libri I-IV. Quest’opera, ma soprattutto quella di poco precedente, dal titolo De iuris interpretibus dialogi sex, (Londini 1582), hanno spesso indotto la storiografia ad annoverarlo fra gli strenui difensori del mos italicus iura docendi ed un acerrimo avversario delle novità prodotte dall’umanesimo giuridico: un’opinione talvolta fondata su una pura e semplice lettura dei soli titoli dei sei Dialoghi. Gli anni successivi sono densi di attività: Gentili. pubblica, infatti, il monumentale volume, in tre libri, rappresentato dal De iure belli (Hanoviae 1598): l’opera per la quale è annoverato fra i padri fodatori del diritto internazionale moderno. La tensione fra tradizione e innovazione, fra continuità e discontinuità caratterizza la produzione scientifica del G. nell’ultimo decennio della sua vita allorquando torna a riflettere sul metodo del giurista e sul valore autoritativo dei due corpora iuris. Dopo aver rivisto, più volte, i giudizi negativi espressi nei Dialogi su alcuni degli umanisti più autorevoli, facendo spesso ricorso alle loro elaborazioni dottrinali (ad esempio nel Commentario ad legem Juliam de adluteriis),il Gentili torna su questioni metodologiche nel primo libro del De nuptiis (Hanoviae 1601) intitolato “qui est de interprete”: testo nel quale definisce il ruolo dei teologi e dei giuristi nel mutato quadro politico e religioso europeo. Alla luce di quest’opera, il silete theologi in munere alieno del De iure belli (I, xii) non può essere inteso come un’aprioristica ingiunzione ai teologi di non occuparsi dell’uomo e delle sue azioni, ma come un’espressione che tenta di definirne il ruolo comparandolo con quello dei giuristi i quali, peraltro, non possono ignorare quanto, da secoli, la teologia ha apportato alla storia della civiltà. Ai primi, sommi interpreti della Sacra Scrittura, compete la comprensione dei precetti divini regolatori delle azioni dell’uomo col fine esclusivo di guidarne la coscienza (foro interno); ai giuristi resta il compito di “definire explicate quid in quaque quaestione est iuris”. A differenza di quanto aveva teorizzato nei Dialogi del 1582 - nei quali aveva sostenuto che per il giurista erano necessari i soli libri della civilis prudentia, mentre non occorreva una profonda conoscenza del latino o del greco, né della dialettica, della storia e delle altre discipline - i principii regolatori dei comportamenti umani, in foro esterno, sono ora desumibili, per Gentili, non solo dalla compilazione giustinianea (della quale farà una attenta illustrazione, soffermandosi anche sui profili eminentemente filologici, nella Disputatio de libris iuris civilis, Hanoviae 1605) e dalle altre fonti normative (fra le quali avrà un ruolo di rilievo anche il diritto canonico cui G. dedicherà una apposita Disputatio de libris iuris canonici, Hanoviae 1605;), ma anche dalle elaborazioni che la scienza giuridica e le altre arti e scienze (storia, filologia, filosofia e teologia) da lui ritenute superflue in un non troppo lontano passato, avevano prodotto in un secolare cammino, teso a separare aequum ab iniquo, iustum ab iniusto, ed a ricercare, quindi, i cardini sui quali fondare l’edificio dell’umana convivenza. Lo studio della storia, la conoscenza del pensiero filosofico e teologico degli antichi autori, l’analisi filologica del testo normativo che non può prescindere da una conoscenza delle lingue greca e latina, un esame accurato delle opere dovute ai grandi giuristi fra le quali debbono essere necessariamente comprese quelle dovute alle menti più brillanti ed autorevoli del complesso movimento di rinnovamento rappresentato dall’umanesimo giuridico, appaiono ora alcuni degli strumenti imprescindibili per l’interpres iuris della prima età moderna. Un ruolo che non può più essere affidato al canonista o al civilista, una suddivisione che in un’epoca caratterizzata da fortissimi contrasti politici e religiosi risulta inaccettabile e, tanto meno, per i motivi che si sono sopra evidenziati, al teologo, ma all’interpres iuris. Questi, però, non agisce da puro e semplice interprete del diritto giustinianeo («corruptus est usus disciplinae nostrae: qui non istam artem aequi, et boni, sed legum Iustinianicarum notitiam solam profitetur» (De nuptiis, p. 57) ma, alla luce del frammento di Ulpiano (Dig. 1.1.1), espressamente citato e fatto proprio da Alberico, quale sacerdos iustitiae, l’unico in grado di proporsi come mediatore e traduttore..., come tramite necessario a intendere il diritto nella sua dimensione più alta e inviolabile. Il giurista di San Ginesio, nel redigere le sue ultime opere, si presenta come l’erede della tradizione universalistica del diritto comune e, contestualmente, come il tramite del rinnovamento della scienza giuridica che si affaccia al secolo nuovo: la ricerca della giustizia, non è più esclusivamente frutto di una interpretazione evolutiva del diritto giustinianeo, ma è il risultato di uno sforzo ermeneutico condotto dal giurista che, grazie alle conoscenze enciclopediche ormai acquisite, può effettivamente proporsi come l’unico intellettuale in grado di formulare principii universalmente validi.
2008
9788821008443
Minnucci, G. (2008). Diritto canonico, diritto civile e teologia nel I Libro del "De nuptiis" di Alberico Gentili. In Proceedings of the Twelfth International Congress of Medieval Canon Law, Washington D.C. 1-7 august 2004, ed- by U-R. Blumenthal, K. Pennington, A. A. Larson (Monumenta Iuris Canonici, Series C: Subsidia, 13) (pp.423-445). Biblioteca Apostolica Vaticana.
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