Nella presente tesi, ci si interroga sulla possibilità - nonché sull'utilità - di trasporre, nell'ambito della corporate governance delle società quotate, i concetti, originariamente elaborati da Hirschman, di Voice e di Exit. In particolare, la presente tesi si articola in quattro capitoli, il primo dei quali concerne la definizione delle categorie in esame. Coerentemente con l’originaria intuizione di Hirschman, si intende con il concetto di Exit una formula descrittiva di istituti che consentono agli azionisti, di recuperare, o tramite il recesso ovvero con l’alienazione delle azioni, il valore della propria partecipazione. Il concetto di Voice, diversamente, indica la possibilità per i soci di ricorrere a condotte organizzate, a fronte di rendimenti degli investimenti ritenuti insoddisfacenti; si instaura così – essenzialmente pel tramite dell’esercizio delle proprie prerogative amministrative in sede assembleare – una diretta interlocuzione tra soci e management. Nel secondo capitolo, si richiama la letteratura in materia di corporate governance, esaminando in senso critico – ed è questo un profilo di interesse dell’elaborato in commento – le prospettazioni teoriche che nel tempo hanno ridimensionato l’importanza del momento assembleare nelle società quotate. Nel terzo capitolo si analizzano le categorie concettuali di Exit e Voice alla luce delle principali tesi elaborate nella letteratura giuseconomica. In particolare, si fa ricorso non soltanto alla ben nota teoria dei costi di agenzia ma anche alle tesi che partendo dalla nozione di investimento specifico, individuano quale “finalità” del diritto societario quella di tutelare l’efficiente allocazione e la stabilità del controllo, affinché sia i soci imprenditori che gli stakeholder possano conseguire le utilità correlate a siffatti investimenti specifici. Nel presente lavoro si individua, quindi, un nesso di complementarità intercorrente tra i benefici privati del controllo remunerativi e le quasi rendite che, rispettivamente, gli azionisti-amministratori e gli stakeholder ottengono dagli investimenti specifici posti in essere. I primi infatti possono massimizzare le proprie utilità, solamente se vi sono, in un modello imprenditoriale complesso, degli stakeholder a loro volta disposti a credere nel progetto imprenditoriale e a compiere investimenti specifici. Per tale motivo, qualsiasi minaccia di hold-up posta in essere dai soci imprenditori nei confronti degli stakeholder potrebbe non risultare completamente credibile, poiché i secondi sarebbero consapevoli del fatto che i soci amministratori abbisognano dei loro investimenti e della loro adesione al progetto imprenditoriale, per massimizzare i guadagni (anche non patrimoniali) derivanti dagli investimenti effettuati. Al contrario, i soci investitori, poiché non conseguono benefici privati remunerativi del controllo, sono insensibili a tale rapporto di complementarità e – in presenza di rimedi di Voice effettivi e di frammentazione della base azionaria – potrebbe compiere realisticamente condotte opportunistiche in danno degli stakeholder i quali, nel timore che ciò accada, diverrebbero meno propensi a compiere investimenti specifici. Alla luce degli approcci dottrinari sopracitati, si evidenzia come la contestuale effettività delle tutele di Exit e di Voice, pur mitigando l’incidenza dei costi di agenzia, potrebbe minare la stabilità del controllo e ridurre la propensione degli stakeholder ad investire nell’attività di impresa. Si esamina quindi l’istituto – di recente introduzione nell’ordinamento italiano – della maggiorazione del voto per l’azionista di lungo periodo, richiamando il terzo concetto – la “Loyalty” – elaborato da Hirschman. In particolare, si evidenzia come il meccanismo in esame possa assurgere ad un incentivo alla quotazione in un contesto istituzionale, quale quello italiano, che tutt’ora si caratterizza per l’opacità e la poca efficienza del mercato azionario. Coerentemente con l’impostazione di fondo della tesi, si cerca di dimostrare come la maggiorazione del voto per l’azionista di lungo periodo possa preservare, nonostante l’ampliamento nella composizione della compagine sociale che si determina a seguito della quotazione della società, gli incentivi sia degli stakeholder che degli azionisti amministratori ad investire.
Nardi, D. (2017). Voice, Exit e Loyalty nella Governance delle società quotate: prospettive di Analisi Economica del Diritto.
Voice, Exit e Loyalty nella Governance delle società quotate: prospettive di Analisi Economica del Diritto
NARDI, DARIO
2017-01-01
Abstract
Nella presente tesi, ci si interroga sulla possibilità - nonché sull'utilità - di trasporre, nell'ambito della corporate governance delle società quotate, i concetti, originariamente elaborati da Hirschman, di Voice e di Exit. In particolare, la presente tesi si articola in quattro capitoli, il primo dei quali concerne la definizione delle categorie in esame. Coerentemente con l’originaria intuizione di Hirschman, si intende con il concetto di Exit una formula descrittiva di istituti che consentono agli azionisti, di recuperare, o tramite il recesso ovvero con l’alienazione delle azioni, il valore della propria partecipazione. Il concetto di Voice, diversamente, indica la possibilità per i soci di ricorrere a condotte organizzate, a fronte di rendimenti degli investimenti ritenuti insoddisfacenti; si instaura così – essenzialmente pel tramite dell’esercizio delle proprie prerogative amministrative in sede assembleare – una diretta interlocuzione tra soci e management. Nel secondo capitolo, si richiama la letteratura in materia di corporate governance, esaminando in senso critico – ed è questo un profilo di interesse dell’elaborato in commento – le prospettazioni teoriche che nel tempo hanno ridimensionato l’importanza del momento assembleare nelle società quotate. Nel terzo capitolo si analizzano le categorie concettuali di Exit e Voice alla luce delle principali tesi elaborate nella letteratura giuseconomica. In particolare, si fa ricorso non soltanto alla ben nota teoria dei costi di agenzia ma anche alle tesi che partendo dalla nozione di investimento specifico, individuano quale “finalità” del diritto societario quella di tutelare l’efficiente allocazione e la stabilità del controllo, affinché sia i soci imprenditori che gli stakeholder possano conseguire le utilità correlate a siffatti investimenti specifici. Nel presente lavoro si individua, quindi, un nesso di complementarità intercorrente tra i benefici privati del controllo remunerativi e le quasi rendite che, rispettivamente, gli azionisti-amministratori e gli stakeholder ottengono dagli investimenti specifici posti in essere. I primi infatti possono massimizzare le proprie utilità, solamente se vi sono, in un modello imprenditoriale complesso, degli stakeholder a loro volta disposti a credere nel progetto imprenditoriale e a compiere investimenti specifici. Per tale motivo, qualsiasi minaccia di hold-up posta in essere dai soci imprenditori nei confronti degli stakeholder potrebbe non risultare completamente credibile, poiché i secondi sarebbero consapevoli del fatto che i soci amministratori abbisognano dei loro investimenti e della loro adesione al progetto imprenditoriale, per massimizzare i guadagni (anche non patrimoniali) derivanti dagli investimenti effettuati. Al contrario, i soci investitori, poiché non conseguono benefici privati remunerativi del controllo, sono insensibili a tale rapporto di complementarità e – in presenza di rimedi di Voice effettivi e di frammentazione della base azionaria – potrebbe compiere realisticamente condotte opportunistiche in danno degli stakeholder i quali, nel timore che ciò accada, diverrebbero meno propensi a compiere investimenti specifici. Alla luce degli approcci dottrinari sopracitati, si evidenzia come la contestuale effettività delle tutele di Exit e di Voice, pur mitigando l’incidenza dei costi di agenzia, potrebbe minare la stabilità del controllo e ridurre la propensione degli stakeholder ad investire nell’attività di impresa. Si esamina quindi l’istituto – di recente introduzione nell’ordinamento italiano – della maggiorazione del voto per l’azionista di lungo periodo, richiamando il terzo concetto – la “Loyalty” – elaborato da Hirschman. In particolare, si evidenzia come il meccanismo in esame possa assurgere ad un incentivo alla quotazione in un contesto istituzionale, quale quello italiano, che tutt’ora si caratterizza per l’opacità e la poca efficienza del mercato azionario. Coerentemente con l’impostazione di fondo della tesi, si cerca di dimostrare come la maggiorazione del voto per l’azionista di lungo periodo possa preservare, nonostante l’ampliamento nella composizione della compagine sociale che si determina a seguito della quotazione della società, gli incentivi sia degli stakeholder che degli azionisti amministratori ad investire.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.
https://hdl.handle.net/11365/1028532
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