La più recente tappa nel lunghissimo e tortuoso percorso di riforma del lavoro pubblico (l.n.15/2009, d.lgs.n.150/2009) assegna all’intervento sul sistema disciplinare un ruolo centrale rispetto all’obiettivo perseguito di “potenziare il livello di efficienza degli uffici pubblici e di contrastare i fenomeni di scarsa produttività ed assenteismo”. Si ritiene dunque il bastone il vero strumento per rimediare allo scarso impegno dei dipendenti pubblici e agli scarsi risultati della loro attività e per ottenere quell’efficienza che le previgenti regolazioni non sono riuscite a garantire. A tale scopo a riforma, in questa materia opera, da un lato intervenendo sul codice disciplinare negoziato, imponendo ex lege, con carattere di inderogabilità, specifiche sanzioni in relazione a determinate infrazioni, dunque riducendo significativamente la discrezionalità delle parti negoziali e dell’amministrazione; dall’altro lato, obbligando i dirigenti all’uso del potere disciplinare, e sanzionandoli in caso di omissione. In altri termini, poiché sinora i dirigenti non hanno fatto uso del potere disciplinare, la soluzione è di intervenire ponendo ex lege una serie puntigliosa di obblighi sanzionatori e punendo i dirigenti se non li rispettano. In generale sono numerose le perplessità in ordine all’efficacia degli strumenti disegnati ex novo e alle loro implicazioni “di sistema”, anche se non si dubita della necessità di interventi riformatori su questo profilo, essendo un dato di evidenza che il potere sanzionatorio viene esercitato pochissimo e in genere senza esiti significativi. Con riferimento al modo pervasivo e puntuale con il quale la legge individua i comportamenti illeciti e le corrispettive sanzioni, le perplessità, per quanto concerne i risultati dell’innovazione, riguardano il nesso univoco delineato tra la scarsa produttività e le procedure disciplinari, perché è dubbia l’efficacia della mera valorizzazione delle tecniche sanzionatorie dettagliatamente normate. Sul piano sistematico occorre riflettere sull’applicazione della politica di ridimensionamento della contrattazione collettiva anche in un campo in cui il ruolo della autonomia collettiva è tradizionalmente centrale: qui non si tratta, come per l’organizzazione degli uffici, di frenare una presenza invasiva della contrattazione in spazi che non le competono, ma di ridimensionarla fortemente in spazi che anche nel settore privato le sono propri. Si aggiunga che molte delle nuove prescrizioni eteronome ricalcano disposizioni analoghe contenute nei contratti collettivi. Particolarmente rilevante, e controversa, si configura poi la scelta di guidare e vincolare i dirigenti nell’utilizzo del potere disciplinare. E’ infatti evidente la contraddizione con il proclamato obiettivo di ampliare e rafforzare l’autonomia e i poteri dei dirigenti: considerato che il potere disciplinare è essenziale complemento del potere direttivo, intrappolarlo in una griglia di puntuali e rigide regole eteronome allontana l’amministratore pubblico dalla (pur mitizzata) figura del manager privato che gestisce efficacemente premiando e punendo con piena discrezionalità. Ci si può chiedere se il dirigente, “costretto” e “guidato” dalle norme legislative, “imparerà” ad usare i suoi poteri e a liberarsi dalla tutela delle sfere politica e sindacale, consentendo finalmente di attuare l’auspicata gestione manageriale autonoma ed efficiente; o se piuttosto la riforma non finirà con il produrre una figura dirigenziale che contraddice il paradigma teorizzato, nel momento in cui anche normativamente allontana il dirigente pubblico dal modello del privato datore di lavoro. L’analisi della riforma del sistema disciplinare svolta nel contributo dovrà fornire elementi per valutare se i giudizi critici sono fondati o se al contrario si può sperare che le innovazioni produrranno un cambiamento in positivo.
Borgogelli, F. (2009). La responsabilità disciplinare del dipendente pubblico. In Ideologia e tecnica nella riforma del lavoro pubblico (pp. 399-432). NAPOLI : Editoriale scientifica.
La responsabilità disciplinare del dipendente pubblico
BORGOGELLI, FRANCA
2009-01-01
Abstract
La più recente tappa nel lunghissimo e tortuoso percorso di riforma del lavoro pubblico (l.n.15/2009, d.lgs.n.150/2009) assegna all’intervento sul sistema disciplinare un ruolo centrale rispetto all’obiettivo perseguito di “potenziare il livello di efficienza degli uffici pubblici e di contrastare i fenomeni di scarsa produttività ed assenteismo”. Si ritiene dunque il bastone il vero strumento per rimediare allo scarso impegno dei dipendenti pubblici e agli scarsi risultati della loro attività e per ottenere quell’efficienza che le previgenti regolazioni non sono riuscite a garantire. A tale scopo a riforma, in questa materia opera, da un lato intervenendo sul codice disciplinare negoziato, imponendo ex lege, con carattere di inderogabilità, specifiche sanzioni in relazione a determinate infrazioni, dunque riducendo significativamente la discrezionalità delle parti negoziali e dell’amministrazione; dall’altro lato, obbligando i dirigenti all’uso del potere disciplinare, e sanzionandoli in caso di omissione. In altri termini, poiché sinora i dirigenti non hanno fatto uso del potere disciplinare, la soluzione è di intervenire ponendo ex lege una serie puntigliosa di obblighi sanzionatori e punendo i dirigenti se non li rispettano. In generale sono numerose le perplessità in ordine all’efficacia degli strumenti disegnati ex novo e alle loro implicazioni “di sistema”, anche se non si dubita della necessità di interventi riformatori su questo profilo, essendo un dato di evidenza che il potere sanzionatorio viene esercitato pochissimo e in genere senza esiti significativi. Con riferimento al modo pervasivo e puntuale con il quale la legge individua i comportamenti illeciti e le corrispettive sanzioni, le perplessità, per quanto concerne i risultati dell’innovazione, riguardano il nesso univoco delineato tra la scarsa produttività e le procedure disciplinari, perché è dubbia l’efficacia della mera valorizzazione delle tecniche sanzionatorie dettagliatamente normate. Sul piano sistematico occorre riflettere sull’applicazione della politica di ridimensionamento della contrattazione collettiva anche in un campo in cui il ruolo della autonomia collettiva è tradizionalmente centrale: qui non si tratta, come per l’organizzazione degli uffici, di frenare una presenza invasiva della contrattazione in spazi che non le competono, ma di ridimensionarla fortemente in spazi che anche nel settore privato le sono propri. Si aggiunga che molte delle nuove prescrizioni eteronome ricalcano disposizioni analoghe contenute nei contratti collettivi. Particolarmente rilevante, e controversa, si configura poi la scelta di guidare e vincolare i dirigenti nell’utilizzo del potere disciplinare. E’ infatti evidente la contraddizione con il proclamato obiettivo di ampliare e rafforzare l’autonomia e i poteri dei dirigenti: considerato che il potere disciplinare è essenziale complemento del potere direttivo, intrappolarlo in una griglia di puntuali e rigide regole eteronome allontana l’amministratore pubblico dalla (pur mitizzata) figura del manager privato che gestisce efficacemente premiando e punendo con piena discrezionalità. Ci si può chiedere se il dirigente, “costretto” e “guidato” dalle norme legislative, “imparerà” ad usare i suoi poteri e a liberarsi dalla tutela delle sfere politica e sindacale, consentendo finalmente di attuare l’auspicata gestione manageriale autonoma ed efficiente; o se piuttosto la riforma non finirà con il produrre una figura dirigenziale che contraddice il paradigma teorizzato, nel momento in cui anche normativamente allontana il dirigente pubblico dal modello del privato datore di lavoro. L’analisi della riforma del sistema disciplinare svolta nel contributo dovrà fornire elementi per valutare se i giudizi critici sono fondati o se al contrario si può sperare che le innovazioni produrranno un cambiamento in positivo.File | Dimensione | Formato | |
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