Dopo una breve introduzione di carattere metodologico sugli studi di storia dell’alimentazione, evidenziando in particolare i diversi approcci di tipo economico e socio-culturale, il tema della carne è stato affrontato cercando di ricostruire il contesto generale dei consumi come venne sviluppandosi nel corso dell’età moderna. Uno dei dati più importanti che emerge è la diminuzione dei consumi di carne in un’epoca che va, approssimativamente, dal XVI al XIX secolo. Solo nella seconda metà dell’800 i consumi ripresero a salire quasi dappertutto. Si tratta di un fenomeno che sembra avere un respiro europeo e su cui non mancano le testimonianze, gli studi approfonditi. In questa diminuzione di carattere generale si deve però tenere conto di una serie di notevoli differenze che intercorrono e caratterizzano i regimi alimentari delle varie regioni europee. Si è detto, infatti, che il peso dei consumi di carne diminuiva man mano che nella geografia europea si scendeva da nord a sud e in quella sociale si scendeva nella piramide della società, dai più ricchi ai più poveri. Gli storici dell’alimentazione hanno evidenziato nei consumi alimentari una serie di contrapposizioni, che in buona parte vengono a sovrapporsi: una contrapposizione generale tra ricchi e poveri, una fra Europa settentrionale ed Europa mediterranea, una fra città e campagna, una, infine, fra pianura e montagna. All’interno di queste schematizzazioni generali vengono dunque ad assumere una grande rilevanza le differenziazioni nei consumi di carne di origine sociale, culturale e geografica. Tutto ciò significava che gli abitanti dell’Europa del nord erano assai più carnivori rispetto agli abitanti dell’area mediterranea; che la carne era, in generale, un lusso per pochi; che i ceti meno abbienti, ovvero la maggioranza della popolazione, le volte che mangiavano carne si adattavano a consumarne di qualità considerate inferiori; che in città si mangiava più carne rispetto alle campagne e così via. Firenze non faceva eccezione a questa serie di regole generali; i suoi consumi di carne diminuirono come nel resto d’Europa, anche se i dati quantitativi disponibili ci indicano un livello dei consumi meno basso rispetto al restante territorio toscano o ad altre aree dell’Italia. Per gli stranieri del nord-Europa, i fiorentini e gli italiani rimanevano comunque dei «mangiafoglia», ovvero dei gran consumatori di vegetali. In questo cornice di consumi in progressiva diminuzione anche il mestiere di coloro che assicuravano, con il loro lavoro e con i loro saperi millenari, la presenza della carne sulle mense dei cittadini fiorentini subì delle notevoli trasformazioni. Nella ricca e variegata vita associativa della Firenze medievale, la potente corporazione dei beccai era stata una delle più importanti e influenti. Compresa fra le 12 arti minori, era ascesa assieme alle altre al governo della repubblica; nel ‘300 aveva fatto costruire i locali della «Beccheria» in Mercato Vecchio, al centro della città; all’inizio del ‘400 aveva innalzato un sontuoso palazzo nei pressi di Orsanmichele, monumento simbolo delle arti fiorentine, che conservava nelle sue nicchie una preziosa statua di S. Pietro, commissionata dagli stessi beccai al giovane Brunelleschi. La caduta della repubblica e l’avvento del Principato dei Medici nella prima metà del ‘500 infersero un colpo mortale al modello corporativo medievale già in precedenza peraltro svuotato di molti dei suoi contenuti politici ed economico-sociali. Non diversamente da altri mestieri, anche l’arte dei beccai iniziò un processo di profonda trasformazione, soprattutto per quel che concerne il suo ruolo nella vita pubblica; scomparve come ente autonomo già nel 1534 e nel suo caso cominciò a mutare il nome stesso del mestiere, che sempre più spesso fu quello di macellaro e non più di beccaro. La Corporazione sopravvisse stentatamente all’interno di un più vasto aggregato di mestieri che, dal 1586, assunse il nome di Por S. Piero e Fabbricanti, che univa esercenti in ambito alimentare con muratori e scalpellini. Non c’è dubbio che queste trasformazioni comportarono una progressiva perdita di identità che si cercò di colmare e di compensare in altre direzioni. I macellai fiorentini riuscirono a mantenere strutture associative proprie fondando nel 1577 una confraternita laico-religiosa denominata di S. Antonio Abate; da allora in poi «l’Università dei macellari», come loro stesso si denominavano, trovò un’identità comune nelle strutture filantropiche e assistenziali della Compagnia. Ma essa rappresentò anche, al di là del carattere devozionale, la vera rappresentante degli interessi comuni dei macellai, stipulando contratti di interesse collettivo, curando i rapporti con il governo, imponendo agli associati precise regole di vita e di comportamento. Sopravvisse fino all’abolizione operata da Pietro Leopoldo di Asburgo Lorena. La presenza dei macellai nel tessuto cittadino è stata ricostruita analizzando la localizzazione delle botteghe che ci restituisce un quadro di sostanziale stabilità, se si eccettua l’allontanamento dal Ponte Vecchio alla fine del ‘500. Situate nelle piazze principali oppure in corrispondenza dei ponti sull’Arno, la maggiore concentrazione si riscontrava nell’area del Mercato Vecchio, centro nevralgico della distribuzione alimentare in città. Un luogo affascinante, irrimediabilmente scomparso nella seconda metà dell’800. Per quanto riguarda i macellai, il loro numero diminuì fra il ‘400 e il ‘700; la cosa interessante è però la tenuta di lungo periodo che sembra caratterizzare complessivamente questo ceto produttivo e le vicende di alcune famiglie che, addirittura, manterranno un’identità di mestiere fino a tempi assai recenti. Ma chi era il macellaio? Sul piano professionale era una figura multiforme, di volta in volta allevatore, esperto nel maneggio degli strumenti per la sezione degli animali, bottegaio e commerciante. Era però un personaggio che suscitava sentimenti contrapposti nella società: da un lato pregiudizi duri a morire, dall’altro grande facilità di farsi degli amici nell’ambito dei rapporti con la clientela, spesso proveniente dai ceti medio-alti. Era poi al centro di una folla di artigiani e bottegai che dipendevano dal suo lavoro, ad esempio i pizzicagnoli, i cuoiai, i fabbricanti di candele di sego, oppure i fabbricanti di corde di liuto che lavoravano con le interiora e con i tendini. Non mancano, in questa sezione, alcuni tentativi di ricostruire concretamente l’attività di alcuni macellai, prendendo in esame la documentazione di bottega da essi prodotta. L’ultima parte del lavoro prende in esame i rapporti della categoria con il governo. La sorveglianza nei loro confronti fu sempre assai sentita, sia per motivi annonari, sia per le conseguenze di carattere igienico legate alle varie fasi del lavoro. Con il ridursi dello spazio di autonomia che aveva contraddistinto la vita della corporazione, l’avvento del Principato mediceo significò un controllo sempre più serrato. Il sistema annonario – che mirava ad assicurare i rifornimenti alimentari della capitale e dunque uno stretto controllo del mercato – sottopose l’attività dei macellai a un complesso regime di vincoli che influiva non solo sull’allevamento, ma anche sulla commercializzazione e persino sullo smaltimento dei prodotti. Magistrature come la Grascia e gli Ufficiali di Sanità interagirono sempre più spesso con la categoria, in un quadro di rapporti che non di rado si aprì ad aperti conflitti.

Zagli, A. (2000). Da «beccai» a macellai nella Firenze dei Medici. In "Maladetti Beccari". I macellai fiorentini dal `500 al 2000 (pp. 9-102). FIRENZE : Edizioni Polistampa.

Da «beccai» a macellai nella Firenze dei Medici

ZAGLI, ANDREA
2000-01-01

Abstract

Dopo una breve introduzione di carattere metodologico sugli studi di storia dell’alimentazione, evidenziando in particolare i diversi approcci di tipo economico e socio-culturale, il tema della carne è stato affrontato cercando di ricostruire il contesto generale dei consumi come venne sviluppandosi nel corso dell’età moderna. Uno dei dati più importanti che emerge è la diminuzione dei consumi di carne in un’epoca che va, approssimativamente, dal XVI al XIX secolo. Solo nella seconda metà dell’800 i consumi ripresero a salire quasi dappertutto. Si tratta di un fenomeno che sembra avere un respiro europeo e su cui non mancano le testimonianze, gli studi approfonditi. In questa diminuzione di carattere generale si deve però tenere conto di una serie di notevoli differenze che intercorrono e caratterizzano i regimi alimentari delle varie regioni europee. Si è detto, infatti, che il peso dei consumi di carne diminuiva man mano che nella geografia europea si scendeva da nord a sud e in quella sociale si scendeva nella piramide della società, dai più ricchi ai più poveri. Gli storici dell’alimentazione hanno evidenziato nei consumi alimentari una serie di contrapposizioni, che in buona parte vengono a sovrapporsi: una contrapposizione generale tra ricchi e poveri, una fra Europa settentrionale ed Europa mediterranea, una fra città e campagna, una, infine, fra pianura e montagna. All’interno di queste schematizzazioni generali vengono dunque ad assumere una grande rilevanza le differenziazioni nei consumi di carne di origine sociale, culturale e geografica. Tutto ciò significava che gli abitanti dell’Europa del nord erano assai più carnivori rispetto agli abitanti dell’area mediterranea; che la carne era, in generale, un lusso per pochi; che i ceti meno abbienti, ovvero la maggioranza della popolazione, le volte che mangiavano carne si adattavano a consumarne di qualità considerate inferiori; che in città si mangiava più carne rispetto alle campagne e così via. Firenze non faceva eccezione a questa serie di regole generali; i suoi consumi di carne diminuirono come nel resto d’Europa, anche se i dati quantitativi disponibili ci indicano un livello dei consumi meno basso rispetto al restante territorio toscano o ad altre aree dell’Italia. Per gli stranieri del nord-Europa, i fiorentini e gli italiani rimanevano comunque dei «mangiafoglia», ovvero dei gran consumatori di vegetali. In questo cornice di consumi in progressiva diminuzione anche il mestiere di coloro che assicuravano, con il loro lavoro e con i loro saperi millenari, la presenza della carne sulle mense dei cittadini fiorentini subì delle notevoli trasformazioni. Nella ricca e variegata vita associativa della Firenze medievale, la potente corporazione dei beccai era stata una delle più importanti e influenti. Compresa fra le 12 arti minori, era ascesa assieme alle altre al governo della repubblica; nel ‘300 aveva fatto costruire i locali della «Beccheria» in Mercato Vecchio, al centro della città; all’inizio del ‘400 aveva innalzato un sontuoso palazzo nei pressi di Orsanmichele, monumento simbolo delle arti fiorentine, che conservava nelle sue nicchie una preziosa statua di S. Pietro, commissionata dagli stessi beccai al giovane Brunelleschi. La caduta della repubblica e l’avvento del Principato dei Medici nella prima metà del ‘500 infersero un colpo mortale al modello corporativo medievale già in precedenza peraltro svuotato di molti dei suoi contenuti politici ed economico-sociali. Non diversamente da altri mestieri, anche l’arte dei beccai iniziò un processo di profonda trasformazione, soprattutto per quel che concerne il suo ruolo nella vita pubblica; scomparve come ente autonomo già nel 1534 e nel suo caso cominciò a mutare il nome stesso del mestiere, che sempre più spesso fu quello di macellaro e non più di beccaro. La Corporazione sopravvisse stentatamente all’interno di un più vasto aggregato di mestieri che, dal 1586, assunse il nome di Por S. Piero e Fabbricanti, che univa esercenti in ambito alimentare con muratori e scalpellini. Non c’è dubbio che queste trasformazioni comportarono una progressiva perdita di identità che si cercò di colmare e di compensare in altre direzioni. I macellai fiorentini riuscirono a mantenere strutture associative proprie fondando nel 1577 una confraternita laico-religiosa denominata di S. Antonio Abate; da allora in poi «l’Università dei macellari», come loro stesso si denominavano, trovò un’identità comune nelle strutture filantropiche e assistenziali della Compagnia. Ma essa rappresentò anche, al di là del carattere devozionale, la vera rappresentante degli interessi comuni dei macellai, stipulando contratti di interesse collettivo, curando i rapporti con il governo, imponendo agli associati precise regole di vita e di comportamento. Sopravvisse fino all’abolizione operata da Pietro Leopoldo di Asburgo Lorena. La presenza dei macellai nel tessuto cittadino è stata ricostruita analizzando la localizzazione delle botteghe che ci restituisce un quadro di sostanziale stabilità, se si eccettua l’allontanamento dal Ponte Vecchio alla fine del ‘500. Situate nelle piazze principali oppure in corrispondenza dei ponti sull’Arno, la maggiore concentrazione si riscontrava nell’area del Mercato Vecchio, centro nevralgico della distribuzione alimentare in città. Un luogo affascinante, irrimediabilmente scomparso nella seconda metà dell’800. Per quanto riguarda i macellai, il loro numero diminuì fra il ‘400 e il ‘700; la cosa interessante è però la tenuta di lungo periodo che sembra caratterizzare complessivamente questo ceto produttivo e le vicende di alcune famiglie che, addirittura, manterranno un’identità di mestiere fino a tempi assai recenti. Ma chi era il macellaio? Sul piano professionale era una figura multiforme, di volta in volta allevatore, esperto nel maneggio degli strumenti per la sezione degli animali, bottegaio e commerciante. Era però un personaggio che suscitava sentimenti contrapposti nella società: da un lato pregiudizi duri a morire, dall’altro grande facilità di farsi degli amici nell’ambito dei rapporti con la clientela, spesso proveniente dai ceti medio-alti. Era poi al centro di una folla di artigiani e bottegai che dipendevano dal suo lavoro, ad esempio i pizzicagnoli, i cuoiai, i fabbricanti di candele di sego, oppure i fabbricanti di corde di liuto che lavoravano con le interiora e con i tendini. Non mancano, in questa sezione, alcuni tentativi di ricostruire concretamente l’attività di alcuni macellai, prendendo in esame la documentazione di bottega da essi prodotta. L’ultima parte del lavoro prende in esame i rapporti della categoria con il governo. La sorveglianza nei loro confronti fu sempre assai sentita, sia per motivi annonari, sia per le conseguenze di carattere igienico legate alle varie fasi del lavoro. Con il ridursi dello spazio di autonomia che aveva contraddistinto la vita della corporazione, l’avvento del Principato mediceo significò un controllo sempre più serrato. Il sistema annonario – che mirava ad assicurare i rifornimenti alimentari della capitale e dunque uno stretto controllo del mercato – sottopose l’attività dei macellai a un complesso regime di vincoli che influiva non solo sull’allevamento, ma anche sulla commercializzazione e persino sullo smaltimento dei prodotti. Magistrature come la Grascia e gli Ufficiali di Sanità interagirono sempre più spesso con la categoria, in un quadro di rapporti che non di rado si aprì ad aperti conflitti.
2000
9788883042676
Zagli, A. (2000). Da «beccai» a macellai nella Firenze dei Medici. In "Maladetti Beccari". I macellai fiorentini dal `500 al 2000 (pp. 9-102). FIRENZE : Edizioni Polistampa.
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