Se, nel tempo, la pedagogia del lavoro ha avuto alcuni attenti cultori non altrettanto è accaduto per la pedagogia della formazione professionale e delle professioni. Tra le conseguenze che ne sono derivate è da segnalare la diffusione di interventi formativi declinati principalmente sul versante dell’acquisizione di abilità legate all’espletamento delle sole mansioni lavorative,senza preoccuparsi di una loro legittimazione sul piano pedagogico. Tale approccio ha dovuto inoltre scontare gli effetti di fenomeni come il persistere di bassi livelli di “competenza alfabetica” in larghi strati della popolazione italiana in età lavorativa (che il benchmarking con altri Paesi fa apparire in tutta la sua gravità), l’affiorare di resistenze più o meno esplicite all’introduzione di processi innovativi all’interno delle organizzazioni produttive (particolarmente tra le persone meno giovani e poco scolarizzate), il progressivo radicarsi della dual economy (in cui il terziario avanzato registra una costante crescita delle competenze proprie delle qualifiche professionali alte), che hanno ulteriormente evidenziato il mismatch tra competenze padroneggiate e saperi richiesti dalle occupazioni disponibili. Tutto ciò pone oggi l’esigenza di comprendere, per un verso, le ragioni per le quali la formazione continua non sia riuscita ad affermarsi come pratica abituale che accompagna la vita lavorativa delle persone e di individuare, per l’altro, le strategie più idonee a valorizzarne gli apporti. L’articolo si sofferma sul perché tale tipologia di formazione, nata all’interno del mondo del lavoro, abbia faticato non poco ad assumere una sua peculiare identità entro la più ampia cornice di senso rappresentata dall’idea di educazione permanente o comunque di apprendimento permanente. La riflessione pedagogica – queste le conclusioni alle quali il contributo perviene – è impegnata a liberare la formazione continua dai lacci dello specialismo e dell’efficientismo produttivistico, a riconsiderare il suo rapporto con l’educazione, a misurarsi con le problematiche dell’apprendimento in età adulta. Soprattutto è chiamata ad evidenziare che la prestazione lavorativa, per quanto rilevante, non può costituire una funzione totalizzante. Il lavoro rappresenta un importante tratto identitario ma non è tutto l’uomo. La formazione continua esige di essere pensata ed attuata, oltre che per soddisfare le necessità dei contesti organizzativi, anche per giovare allo sviluppo personale dei lavoratori.
Angori, S. (2012). La formazione continua: ragioni e prospettive. In Formazione continua. Strumento di cittadinanza (pp. 21-50). Milano : FrancoAngeli.
La formazione continua: ragioni e prospettive
ANGORI, SERGIO
2012-01-01
Abstract
Se, nel tempo, la pedagogia del lavoro ha avuto alcuni attenti cultori non altrettanto è accaduto per la pedagogia della formazione professionale e delle professioni. Tra le conseguenze che ne sono derivate è da segnalare la diffusione di interventi formativi declinati principalmente sul versante dell’acquisizione di abilità legate all’espletamento delle sole mansioni lavorative,senza preoccuparsi di una loro legittimazione sul piano pedagogico. Tale approccio ha dovuto inoltre scontare gli effetti di fenomeni come il persistere di bassi livelli di “competenza alfabetica” in larghi strati della popolazione italiana in età lavorativa (che il benchmarking con altri Paesi fa apparire in tutta la sua gravità), l’affiorare di resistenze più o meno esplicite all’introduzione di processi innovativi all’interno delle organizzazioni produttive (particolarmente tra le persone meno giovani e poco scolarizzate), il progressivo radicarsi della dual economy (in cui il terziario avanzato registra una costante crescita delle competenze proprie delle qualifiche professionali alte), che hanno ulteriormente evidenziato il mismatch tra competenze padroneggiate e saperi richiesti dalle occupazioni disponibili. Tutto ciò pone oggi l’esigenza di comprendere, per un verso, le ragioni per le quali la formazione continua non sia riuscita ad affermarsi come pratica abituale che accompagna la vita lavorativa delle persone e di individuare, per l’altro, le strategie più idonee a valorizzarne gli apporti. L’articolo si sofferma sul perché tale tipologia di formazione, nata all’interno del mondo del lavoro, abbia faticato non poco ad assumere una sua peculiare identità entro la più ampia cornice di senso rappresentata dall’idea di educazione permanente o comunque di apprendimento permanente. La riflessione pedagogica – queste le conclusioni alle quali il contributo perviene – è impegnata a liberare la formazione continua dai lacci dello specialismo e dell’efficientismo produttivistico, a riconsiderare il suo rapporto con l’educazione, a misurarsi con le problematiche dell’apprendimento in età adulta. Soprattutto è chiamata ad evidenziare che la prestazione lavorativa, per quanto rilevante, non può costituire una funzione totalizzante. Il lavoro rappresenta un importante tratto identitario ma non è tutto l’uomo. La formazione continua esige di essere pensata ed attuata, oltre che per soddisfare le necessità dei contesti organizzativi, anche per giovare allo sviluppo personale dei lavoratori.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.
https://hdl.handle.net/11365/32358
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