La formazione di moderni mercati finanziari durante l’Ottocento è stata intimamente connessa, nell’Europa continentale, all’intervento dello Stato, sia come regolatore sia come emittente. La funzione di emittente degli stati nazionali si è rivelata, più in generale, un fattore rilevante di impulso alla formazione di mercati finanziari liquidi, conferendo un livello sufficiente di dimensione e regolarità alle transazioni quale condizione essenziale di efficienza e sviluppo, anche nei paesi anglosassoni dove il mercato di borsa si è tipicamente configurato come un’associazione tra operatori. Durante il Settecento fu in effetti, e in primo luogo, la stabilizzazione della finanza pubblica operata dai rispettivi governi in Gran Bretagna e Francia a porre le premesse, dal lato dell’offerta, della progressiva trasformazione, avviata con le guerre napoleoniche, di Londra e Parigi in centri finanziari internazionali, attraendovi le competenze professionali e gli operatori qualificati. La formazione di un mercato dei titoli pubblici ampio e liquido è stata storicamente condizione della formazione dei mercati finanziari. Da quel mercato derivarono contratti di compravendita e tecniche di negoziazione che sarebbero stati successivamente adottati nei mercati azionari. L’offerta di titoli di società per azioni, dalla metà dell’Ottocento motivata dall’eccezionale entità degli investimenti nelle reti infrastrutturali, non avrebbe potuto prescindere dal mercato dei capitali come mercato organizzato originato dallo Stato quale soggetto emittente. La progressiva diminuzione dei tassi di interesse a lungo termine, registrata lungo l’intero Ottocento, fu sì preceduta dalla razionalizzazione delle finanze pubbliche ma dipese almeno altrettanto dalla creazione di mercati che dessero liquidità ai titoli dei maggiori stati nazionali. Le stesse forme di regolamentazione del mercato e protezione giuridica degli investitori sperimentate per dare continuità e stabilità alle transazioni furono parte di quel processo evolutivo che avrebbe esteso le possibilità di raccolta di fondi per le imprese mediante il collocamento di azioni e obbligazioni sul mercato di borsa. La funzione di regolazione dello Stato si esercitò con obiettivi specifici, dall’adozione di misure di controllo al fine di evitare fenomeni di instabilità alla realizzazione di infrastrutture giuridiche e condizioni regolamentari concepite per imprimere impulso alla crescita di efficienza e dimensione dei mercati. In tale senso l’assetto giuridico e regolamentare è stato recentemente enfatizzato quale fattore rilevante di determinazione della morfologia della struttura finanziaria e dell’efficienza relativa dei mercati. La performance dei mercati finanziari in termini di capitalizzazione e efficienza allocativa è stata in questa prospettiva ricondotta all’intervento regolamentare esercitato dalle autorità pubbliche, le cui politiche di contenimento dei fenomeni di instabilità avrebbero tuttavia portato a forme di financial repression dai primi anni trenta sino agli anni settanta del Novecento, segnando la perdita di funzionalità e dimensione dei mercati rispetto agli intermediari finanziari. Se la funzione positiva dello Stato come emittente è particolarmente apprezzata nelle fasi genetiche di formazione dei mercati finanziari, si ritiene però in genere che la dilatazione della spesa pubblica e, conseguentemente, l’aumento dello stock di debito tenda a innescare fenomeni di crowding out che contengono drasticamente la provvista di capitale di rischio da parte del settore privato. La competizione tra settore pubblico e settore privato sul mercato dei capitali e le rigidità regolamentari derivanti dalla precedente fase di intervento dello Stato avrebbero motivato le politiche di deregolamentazione e privatizzazione inaugurate negli anni ottanta, in reazione alla dinamica di crescita negativa della stagflazione, restituendo margini di rilevanza ai mercati rispetto agli intermediari finanziari. Negli ultimi trent’anni si è così delineata con forza, soprattutto per convergenza verso i modelli istituzionali anglosassoni, la ripresa dell’importanza assegnata ai mercati nei processi di riassetto della struttura finanziaria dei capitalismi europei, con l’avvio di riforme regolamentari e con politiche economiche che favorissero la crescita e l’efficienza allocativa dei mercati. Nella storia italiana unitaria lo Stato ha avuto sin dagli inizi un ruolo e un peso anzitutto come emittente, mentre nei primi decenni fu meno rilevante l’azione di regolazione esercitata da parlamento, governi e autorità centrali. L’azione regolamentare dello Stato si delineò soprattutto in età giolittiana, essenzialmente in risposta a fenomeni di instabilità, in una fase di precisazione della struttura finanziaria, secondo un modello implicito che mirava a enfatizzare la priorità di obiettivi di politica macroeconomica sui processi di integrazione tra mercato e intermediari. Quell’intervento regolamentare aprì un ciclo legislativo piuttosto lungo che si completò per gradi negli anni trenta, quando il sistema finanziario italiano entrò in una fase ancor più lunga, precisandosi la sua natura banco-centrica anche sotto il profilo ordinamentale, divenendo ampia la presenza pubblica nella proprietà degli intermediari, elevato il livello di regolamentazione, variamente inefficiente il mercato di borsa. Negli anni ottanta le rigidità funzionali e gli impulsi competitivi e normativi esterni stimolarono quindi l’avvio di riforme che ridefinissero il sistema finanziario, incoraggiandone la convergenza verso modelli in cui il mercato dei borsa presenta assetti regolamentari e livelli dimensionali differenti da quelli precedentemente sperimentati. La deregolamentazione e le privatizzazioni hanno posto le condizioni, quanto meno in parte, per la crescita del mercato finanziario, mediante interventi sulla normativa societaria, contenimento dell’impresa pubblica, integrazione tra intermediari e mercato. Nella storia postunitaria si possono perciò distinguere quattro campate temporali maggiori, all’interno delle quali si possono peraltro riconoscere fasi in cui le scelte e i comportamenti della autorità centrali si precisarono o mutarono in relazione al riconoscimento dei principali vincoli esterni nella definizione delle linee di politica economica, in particolare di politica monetaria. Le scelte regolamentari delle autorità monetarie centrali nei primi decenni postunitari dovettero tenere conto delle relazioni tra la consistenza e composizione, manche i costi, del debito pubblico e vincoli macroeconomici esterni: la dipendenza dai mercati finanziari esteri limitò le opzioni che le autorità pubbliche avevano concretamente di fronte a sé (1861-1893). Alla fine dell’Ottocento le autorità centrali tentarono di modificare le condizioni di dipendenza dall’estero, favorite da una fase di crescita dell’economia, riuscendo a ridurre l’entità e il costo di finanziamento del debito mediante la scelta di ancorare di fatto la stabilità interna (prezzi) ed esterna (cambio) al regime aureo. Tale scelta si rivelò poco compatibile con il modello di banca mista, che richiedeva un’organica integrazione tra intermediari e mercati. Tra le due guerre mondiali si dovette scegliere tra la banca universale, considerata un fattore di instabilità per il sistema (1894-1933), e il finanziamento della crescita mediante la creazione di un originale modello in cui le risorse aggiuntive dovevano essere raccolte incanalando il risparmio in un circuito obbligazionario tutelato. Le mancanze e i limiti di quel modello di finanziamento emersero negli anni della stagflazione (1934-1975), inducendo le autorità pubbliche a correggere il sistema finanziario per gradi sino a definire una differente architettura istituzionale nella stagione della deregolamentazione degli intermediari e delle privatizzazioni: ne è derivato un processo di aggiustamento e convergenza verso i modelli prevalenti nelle economie più avanzate, senza tuttavia che ciò abbia di per sé generato o semplicemente coinciso con più alti tassi di crescita del reddito (1976-2010).

Piluso, G. (2011). Il ruolo dello Stato imprenditore e regolatore. In Dall'Unità ai giorni nostri: 150 anni di borsa in Italia (pp. 111-135). ROMA : CONSOB.

Il ruolo dello Stato imprenditore e regolatore

PILUSO, GIANDOMENICO
2011-01-01

Abstract

La formazione di moderni mercati finanziari durante l’Ottocento è stata intimamente connessa, nell’Europa continentale, all’intervento dello Stato, sia come regolatore sia come emittente. La funzione di emittente degli stati nazionali si è rivelata, più in generale, un fattore rilevante di impulso alla formazione di mercati finanziari liquidi, conferendo un livello sufficiente di dimensione e regolarità alle transazioni quale condizione essenziale di efficienza e sviluppo, anche nei paesi anglosassoni dove il mercato di borsa si è tipicamente configurato come un’associazione tra operatori. Durante il Settecento fu in effetti, e in primo luogo, la stabilizzazione della finanza pubblica operata dai rispettivi governi in Gran Bretagna e Francia a porre le premesse, dal lato dell’offerta, della progressiva trasformazione, avviata con le guerre napoleoniche, di Londra e Parigi in centri finanziari internazionali, attraendovi le competenze professionali e gli operatori qualificati. La formazione di un mercato dei titoli pubblici ampio e liquido è stata storicamente condizione della formazione dei mercati finanziari. Da quel mercato derivarono contratti di compravendita e tecniche di negoziazione che sarebbero stati successivamente adottati nei mercati azionari. L’offerta di titoli di società per azioni, dalla metà dell’Ottocento motivata dall’eccezionale entità degli investimenti nelle reti infrastrutturali, non avrebbe potuto prescindere dal mercato dei capitali come mercato organizzato originato dallo Stato quale soggetto emittente. La progressiva diminuzione dei tassi di interesse a lungo termine, registrata lungo l’intero Ottocento, fu sì preceduta dalla razionalizzazione delle finanze pubbliche ma dipese almeno altrettanto dalla creazione di mercati che dessero liquidità ai titoli dei maggiori stati nazionali. Le stesse forme di regolamentazione del mercato e protezione giuridica degli investitori sperimentate per dare continuità e stabilità alle transazioni furono parte di quel processo evolutivo che avrebbe esteso le possibilità di raccolta di fondi per le imprese mediante il collocamento di azioni e obbligazioni sul mercato di borsa. La funzione di regolazione dello Stato si esercitò con obiettivi specifici, dall’adozione di misure di controllo al fine di evitare fenomeni di instabilità alla realizzazione di infrastrutture giuridiche e condizioni regolamentari concepite per imprimere impulso alla crescita di efficienza e dimensione dei mercati. In tale senso l’assetto giuridico e regolamentare è stato recentemente enfatizzato quale fattore rilevante di determinazione della morfologia della struttura finanziaria e dell’efficienza relativa dei mercati. La performance dei mercati finanziari in termini di capitalizzazione e efficienza allocativa è stata in questa prospettiva ricondotta all’intervento regolamentare esercitato dalle autorità pubbliche, le cui politiche di contenimento dei fenomeni di instabilità avrebbero tuttavia portato a forme di financial repression dai primi anni trenta sino agli anni settanta del Novecento, segnando la perdita di funzionalità e dimensione dei mercati rispetto agli intermediari finanziari. Se la funzione positiva dello Stato come emittente è particolarmente apprezzata nelle fasi genetiche di formazione dei mercati finanziari, si ritiene però in genere che la dilatazione della spesa pubblica e, conseguentemente, l’aumento dello stock di debito tenda a innescare fenomeni di crowding out che contengono drasticamente la provvista di capitale di rischio da parte del settore privato. La competizione tra settore pubblico e settore privato sul mercato dei capitali e le rigidità regolamentari derivanti dalla precedente fase di intervento dello Stato avrebbero motivato le politiche di deregolamentazione e privatizzazione inaugurate negli anni ottanta, in reazione alla dinamica di crescita negativa della stagflazione, restituendo margini di rilevanza ai mercati rispetto agli intermediari finanziari. Negli ultimi trent’anni si è così delineata con forza, soprattutto per convergenza verso i modelli istituzionali anglosassoni, la ripresa dell’importanza assegnata ai mercati nei processi di riassetto della struttura finanziaria dei capitalismi europei, con l’avvio di riforme regolamentari e con politiche economiche che favorissero la crescita e l’efficienza allocativa dei mercati. Nella storia italiana unitaria lo Stato ha avuto sin dagli inizi un ruolo e un peso anzitutto come emittente, mentre nei primi decenni fu meno rilevante l’azione di regolazione esercitata da parlamento, governi e autorità centrali. L’azione regolamentare dello Stato si delineò soprattutto in età giolittiana, essenzialmente in risposta a fenomeni di instabilità, in una fase di precisazione della struttura finanziaria, secondo un modello implicito che mirava a enfatizzare la priorità di obiettivi di politica macroeconomica sui processi di integrazione tra mercato e intermediari. Quell’intervento regolamentare aprì un ciclo legislativo piuttosto lungo che si completò per gradi negli anni trenta, quando il sistema finanziario italiano entrò in una fase ancor più lunga, precisandosi la sua natura banco-centrica anche sotto il profilo ordinamentale, divenendo ampia la presenza pubblica nella proprietà degli intermediari, elevato il livello di regolamentazione, variamente inefficiente il mercato di borsa. Negli anni ottanta le rigidità funzionali e gli impulsi competitivi e normativi esterni stimolarono quindi l’avvio di riforme che ridefinissero il sistema finanziario, incoraggiandone la convergenza verso modelli in cui il mercato dei borsa presenta assetti regolamentari e livelli dimensionali differenti da quelli precedentemente sperimentati. La deregolamentazione e le privatizzazioni hanno posto le condizioni, quanto meno in parte, per la crescita del mercato finanziario, mediante interventi sulla normativa societaria, contenimento dell’impresa pubblica, integrazione tra intermediari e mercato. Nella storia postunitaria si possono perciò distinguere quattro campate temporali maggiori, all’interno delle quali si possono peraltro riconoscere fasi in cui le scelte e i comportamenti della autorità centrali si precisarono o mutarono in relazione al riconoscimento dei principali vincoli esterni nella definizione delle linee di politica economica, in particolare di politica monetaria. Le scelte regolamentari delle autorità monetarie centrali nei primi decenni postunitari dovettero tenere conto delle relazioni tra la consistenza e composizione, manche i costi, del debito pubblico e vincoli macroeconomici esterni: la dipendenza dai mercati finanziari esteri limitò le opzioni che le autorità pubbliche avevano concretamente di fronte a sé (1861-1893). Alla fine dell’Ottocento le autorità centrali tentarono di modificare le condizioni di dipendenza dall’estero, favorite da una fase di crescita dell’economia, riuscendo a ridurre l’entità e il costo di finanziamento del debito mediante la scelta di ancorare di fatto la stabilità interna (prezzi) ed esterna (cambio) al regime aureo. Tale scelta si rivelò poco compatibile con il modello di banca mista, che richiedeva un’organica integrazione tra intermediari e mercati. Tra le due guerre mondiali si dovette scegliere tra la banca universale, considerata un fattore di instabilità per il sistema (1894-1933), e il finanziamento della crescita mediante la creazione di un originale modello in cui le risorse aggiuntive dovevano essere raccolte incanalando il risparmio in un circuito obbligazionario tutelato. Le mancanze e i limiti di quel modello di finanziamento emersero negli anni della stagflazione (1934-1975), inducendo le autorità pubbliche a correggere il sistema finanziario per gradi sino a definire una differente architettura istituzionale nella stagione della deregolamentazione degli intermediari e delle privatizzazioni: ne è derivato un processo di aggiustamento e convergenza verso i modelli prevalenti nelle economie più avanzate, senza tuttavia che ciò abbia di per sé generato o semplicemente coinciso con più alti tassi di crescita del reddito (1976-2010).
2011
Piluso, G. (2011). Il ruolo dello Stato imprenditore e regolatore. In Dall'Unità ai giorni nostri: 150 anni di borsa in Italia (pp. 111-135). ROMA : CONSOB.
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