La causa del contratto, lo scopo della società, intesi quale limite di ordine pubblico o se si vuole controllo sociale al libero esplicarsi dell’autonomia privata, vanno perdendo di importanza nel nostro ordinamento. Invero, per ciò che concerne la causa il discorso è appena agli esordi, per il momento un Progetto di un codice europeo dei contratti prevede che la causa non sia più elemento essenziale dei medesimi; per quanto concerne, invece, lo scopo degli enti il dato normativo era già andato avanti prima della riforma delle società del 2003. Si possono dare alcune indicazioni, in tal senso: 1) per ciò che concerne le società lucrative, il mutamento della rubrica dell’art. 2247 c.c. non più “nozione” ma “contratto di società” e la contestuale riconosciuta cittadinanza alle società unipersonali, dapprima solo società a responsabilità limitata ora anche società per azioni, sono circostanze che per ciò stesso sviliscono l’importanza di fare riferimento allo scopo sociale; 2) per ciò che concerne i consorzi, la l. 20 maggio 1976, n. 377, che ha introdotto nel codice civile l’art. 2615-ter, già da tempo ne ha scolorito i connotati causali; 3) per ciò che concerne le cooperative, la legge 31 gennaio 1992, n. 59 ne aveva indebolito la coloritura mutualistica per aver ammesso soci capitalisti quali i soci sovventori e di risparmio; per ciò che riguarda, infine, le fondazioni e le associazioni, ad una visione tradizionale dello scopo di tali enti solo in chiave altruistico-erogativa, si è affiancata una visione più liberale che ritiene compatibile con lo schema causale di entrambi gli enti non solo la produzione e lo scambio di beni e servizi, ma anche la realizzazione di utili (il cosiddetto lucro oggettivo). Questi sviluppi non sono casuali, ma si inseriscono in un quadro normativo in evoluzione, vuoi perché modificato, vuoi perché reinterpretato dalla dottrina e dalla giurisprudenza con sensibilità nuova verso le libertà piuttosto che verso i vincoli alle iniziative economiche dei soggetti. Il quadro normativo al quale facciamo riferimento è, da un lato, quello dell’ordinamento costituzionale, dall’altro, quello dell’ordinamento comunitario. Si deve in particolare alla sensibilità di uno dei nostri maggiori maestri, Pietro Rescigno, l’aver enunciato con chiarezza sin dagli anni Sessanta che l’ordinamento costituzionale garantisce anche la libertà di associarsi ( ex art. 18 Cost.) e che tale libertà comprende anche quella di autorganizzarsi secondo gli schemi che gli individui stessi prescelgono e non secondo quelli che l’ordinamento vorrebbe loro imporre, l’unico limite a tale libertà essendo costituito dalla norma penale. L’ordinamento comunitario, a sua volta, in funzione di promuovere la libertà dei soggetti (ivi compresi gli enti) di operare su un piano di parità in tutti i paesi dell’Unione e, specularmente, in funzione di dare certezza ai terzi che trattano con l’ente della loro piena capacità di agire, indipendentemente dai limiti derivanti dal loro scopo, promuove un uso della persona giuridica slegato da quelli che sono gli scopi eventualmente dichiarati dalla stessa entità giuridica. Lo scopo, dunque, della società, più in generale degli enti, non è posto per ragioni di ordine pubblico, ma – come per altro è dato da sempre acquisito per la dottrina più accorta – in funzione dell’interesse degli stessi soggetti che partecipano all’ente (associati, consorziati, soci, ecc.) o che vi hanno dato vita nel caso di fondazione. In accoglimento di tale impostazione, taluni hanno sempre argomentato a favore della possibilità di abbandonare lo scopo iniziale consentendo la trasformazione, purché all’unanimità; altri, in modo ancora più liberale, hanno sostenuto la trasformabilità a maggioranza . A nostro avviso la questione deve essere rivisitata a fondo a seguito dell’introduzione dell’istituto della c.d. trasformazione eterogenea da ed in società di capitali di cui agli artt. 2500- septies , 2500-octies e 2500-novies c.c. Questa innovazione certamente costituisce l’esito ultimo di quelle tendenze evolutive del nostro ordinamento a favore della libertà dei privati di abbandonare gli scopi iniziali degli enti, ma allo stesso tempo apre nuove ed importanti problematiche: 1) per il fatto di travalicare nel punto di arrivo o nel punto di partenza le forme di svolgimento collettivo di un’attività d’impresa e per il fatto di riguardare anche associazioni, fondazioni e persino comunioni di azienda; 2) nonché per il fatto di fare riferimento – sicuro – alla regola di maggioranza al di là degli esiti più permissivi cui era giunta parte della dottrina in precedenza. Nella prospettiva enunciata oggetto del presente studio è, dunque, la trasformazione eterogenea con riferimento particolare però a quella che ha per esito la società di capitali. La scelta restrittiva – che per altro non escludedi considerare, quando opportuno, anche la trasformazione inversa da società di capitali – ha una giustificazione pratica connessa alla centralità che i modelli delle società di capitali, ma soprattutto quello delle società per azioni, sono venuti assumendo nel nostro ordinamento. Si deve notare infatti che non solo talune leggi impongono il tipo della società per azioni quale tipo privatistico per svolgere talune attività – si pensi ad esempio alle società sportive ed anche alle società bancarie ed a quelle assicurative – ma, ancora una volta in considerazione del fatto che esso può essere utilizzato indipendentemente dallo scopo di lucro, il modello si presenta, proprio in ragione della complessità organizzativa e per la ricchezza di norme, quale quello più versatile in funzione di una pluralità di esigenze. La tendenza cui si è fatto cenno è, per altro, presa in particolare considerazione negli ultimi due capitoli del presente lavoro per ciò che concerne le discipline di particolari settori quali quello bancario e quello assicurativo.

Corvese, C.G. (2005). La trasformazione eterogenea in società di capitali. Giuffrè.

La trasformazione eterogenea in società di capitali

CORVESE, CIRO GENNARO
2005-01-01

Abstract

La causa del contratto, lo scopo della società, intesi quale limite di ordine pubblico o se si vuole controllo sociale al libero esplicarsi dell’autonomia privata, vanno perdendo di importanza nel nostro ordinamento. Invero, per ciò che concerne la causa il discorso è appena agli esordi, per il momento un Progetto di un codice europeo dei contratti prevede che la causa non sia più elemento essenziale dei medesimi; per quanto concerne, invece, lo scopo degli enti il dato normativo era già andato avanti prima della riforma delle società del 2003. Si possono dare alcune indicazioni, in tal senso: 1) per ciò che concerne le società lucrative, il mutamento della rubrica dell’art. 2247 c.c. non più “nozione” ma “contratto di società” e la contestuale riconosciuta cittadinanza alle società unipersonali, dapprima solo società a responsabilità limitata ora anche società per azioni, sono circostanze che per ciò stesso sviliscono l’importanza di fare riferimento allo scopo sociale; 2) per ciò che concerne i consorzi, la l. 20 maggio 1976, n. 377, che ha introdotto nel codice civile l’art. 2615-ter, già da tempo ne ha scolorito i connotati causali; 3) per ciò che concerne le cooperative, la legge 31 gennaio 1992, n. 59 ne aveva indebolito la coloritura mutualistica per aver ammesso soci capitalisti quali i soci sovventori e di risparmio; per ciò che riguarda, infine, le fondazioni e le associazioni, ad una visione tradizionale dello scopo di tali enti solo in chiave altruistico-erogativa, si è affiancata una visione più liberale che ritiene compatibile con lo schema causale di entrambi gli enti non solo la produzione e lo scambio di beni e servizi, ma anche la realizzazione di utili (il cosiddetto lucro oggettivo). Questi sviluppi non sono casuali, ma si inseriscono in un quadro normativo in evoluzione, vuoi perché modificato, vuoi perché reinterpretato dalla dottrina e dalla giurisprudenza con sensibilità nuova verso le libertà piuttosto che verso i vincoli alle iniziative economiche dei soggetti. Il quadro normativo al quale facciamo riferimento è, da un lato, quello dell’ordinamento costituzionale, dall’altro, quello dell’ordinamento comunitario. Si deve in particolare alla sensibilità di uno dei nostri maggiori maestri, Pietro Rescigno, l’aver enunciato con chiarezza sin dagli anni Sessanta che l’ordinamento costituzionale garantisce anche la libertà di associarsi ( ex art. 18 Cost.) e che tale libertà comprende anche quella di autorganizzarsi secondo gli schemi che gli individui stessi prescelgono e non secondo quelli che l’ordinamento vorrebbe loro imporre, l’unico limite a tale libertà essendo costituito dalla norma penale. L’ordinamento comunitario, a sua volta, in funzione di promuovere la libertà dei soggetti (ivi compresi gli enti) di operare su un piano di parità in tutti i paesi dell’Unione e, specularmente, in funzione di dare certezza ai terzi che trattano con l’ente della loro piena capacità di agire, indipendentemente dai limiti derivanti dal loro scopo, promuove un uso della persona giuridica slegato da quelli che sono gli scopi eventualmente dichiarati dalla stessa entità giuridica. Lo scopo, dunque, della società, più in generale degli enti, non è posto per ragioni di ordine pubblico, ma – come per altro è dato da sempre acquisito per la dottrina più accorta – in funzione dell’interesse degli stessi soggetti che partecipano all’ente (associati, consorziati, soci, ecc.) o che vi hanno dato vita nel caso di fondazione. In accoglimento di tale impostazione, taluni hanno sempre argomentato a favore della possibilità di abbandonare lo scopo iniziale consentendo la trasformazione, purché all’unanimità; altri, in modo ancora più liberale, hanno sostenuto la trasformabilità a maggioranza . A nostro avviso la questione deve essere rivisitata a fondo a seguito dell’introduzione dell’istituto della c.d. trasformazione eterogenea da ed in società di capitali di cui agli artt. 2500- septies , 2500-octies e 2500-novies c.c. Questa innovazione certamente costituisce l’esito ultimo di quelle tendenze evolutive del nostro ordinamento a favore della libertà dei privati di abbandonare gli scopi iniziali degli enti, ma allo stesso tempo apre nuove ed importanti problematiche: 1) per il fatto di travalicare nel punto di arrivo o nel punto di partenza le forme di svolgimento collettivo di un’attività d’impresa e per il fatto di riguardare anche associazioni, fondazioni e persino comunioni di azienda; 2) nonché per il fatto di fare riferimento – sicuro – alla regola di maggioranza al di là degli esiti più permissivi cui era giunta parte della dottrina in precedenza. Nella prospettiva enunciata oggetto del presente studio è, dunque, la trasformazione eterogenea con riferimento particolare però a quella che ha per esito la società di capitali. La scelta restrittiva – che per altro non escludedi considerare, quando opportuno, anche la trasformazione inversa da società di capitali – ha una giustificazione pratica connessa alla centralità che i modelli delle società di capitali, ma soprattutto quello delle società per azioni, sono venuti assumendo nel nostro ordinamento. Si deve notare infatti che non solo talune leggi impongono il tipo della società per azioni quale tipo privatistico per svolgere talune attività – si pensi ad esempio alle società sportive ed anche alle società bancarie ed a quelle assicurative – ma, ancora una volta in considerazione del fatto che esso può essere utilizzato indipendentemente dallo scopo di lucro, il modello si presenta, proprio in ragione della complessità organizzativa e per la ricchezza di norme, quale quello più versatile in funzione di una pluralità di esigenze. La tendenza cui si è fatto cenno è, per altro, presa in particolare considerazione negli ultimi due capitoli del presente lavoro per ciò che concerne le discipline di particolari settori quali quello bancario e quello assicurativo.
2005
9788814121692
Corvese, C.G. (2005). La trasformazione eterogenea in società di capitali. Giuffrè.
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