L'articolo prende in esame la rilevanza dell'esilio, della perdita, dell'essere estranei o stranieri nella poesia di José Ángel Valente, in cui il rapporto interpersonale asimmetrico e trascendente con l’Altro, salvaguarda l’esteriorità del linguaggio, linguaggio che il poeta in quanto tale non possiede. Alcuni esempi tratti dalla sua opera saggistica e lirica, mostrano una strada coerente esplorata da più prospettive e in parte ispirata a elementi delle culture greca, ebraica e cristiana: l’estraneità del poeta alla polis; lo Tzimtzùm nella Qabbalah luriana, cioè l’esilio di Dio verso l’interno di Dio (modello dell’esilio del poeta) affinché in quello spazio vuoto, ma umido dei suoi residui germinali, possa essere creato l’universo; o l’esperienza dei grandi mistici cristiani, come san Giovanni della Croce, le cui “parole sostanziali” vengono considerate da Valente alla stregua della “parola-materia” del poeta, che opera nell’estremo limite del linguaggio. Tutto ciò, insieme allo statuto di realtà che è dato al ‘fare’ della parola poetica (nata però dal contemplativo ascolto del poeta), viene qui proposto come costitutivo del «materialismo sacro» che Paolo Valesio, partendo da altre basi, ha identificato come chiave della poetica valentiana. La vita e la poesia di Jabès e il loro incrocio con quelle di Valente, o la scrittura del ‘Fuori’ teorizzata da Blanchot, aiutano a spiegare questa esperienza.

PEREZ-UGENA PARTEARROYO, J. (2017). La parola perduta. Esilio e canto nella poesia di José Ángel Valente.. In M.M. L. Anderson (a cura di), Stranieri di carta, stranieri di voce (pp. 81-90). Roma : Artemide.

La parola perduta. Esilio e canto nella poesia di José Ángel Valente.

Julio Pérez-ugena Partearroyo
2017-01-01

Abstract

L'articolo prende in esame la rilevanza dell'esilio, della perdita, dell'essere estranei o stranieri nella poesia di José Ángel Valente, in cui il rapporto interpersonale asimmetrico e trascendente con l’Altro, salvaguarda l’esteriorità del linguaggio, linguaggio che il poeta in quanto tale non possiede. Alcuni esempi tratti dalla sua opera saggistica e lirica, mostrano una strada coerente esplorata da più prospettive e in parte ispirata a elementi delle culture greca, ebraica e cristiana: l’estraneità del poeta alla polis; lo Tzimtzùm nella Qabbalah luriana, cioè l’esilio di Dio verso l’interno di Dio (modello dell’esilio del poeta) affinché in quello spazio vuoto, ma umido dei suoi residui germinali, possa essere creato l’universo; o l’esperienza dei grandi mistici cristiani, come san Giovanni della Croce, le cui “parole sostanziali” vengono considerate da Valente alla stregua della “parola-materia” del poeta, che opera nell’estremo limite del linguaggio. Tutto ciò, insieme allo statuto di realtà che è dato al ‘fare’ della parola poetica (nata però dal contemplativo ascolto del poeta), viene qui proposto come costitutivo del «materialismo sacro» che Paolo Valesio, partendo da altre basi, ha identificato come chiave della poetica valentiana. La vita e la poesia di Jabès e il loro incrocio con quelle di Valente, o la scrittura del ‘Fuori’ teorizzata da Blanchot, aiutano a spiegare questa esperienza.
2017
978-88-7575-288-0
PEREZ-UGENA PARTEARROYO, J. (2017). La parola perduta. Esilio e canto nella poesia di José Ángel Valente.. In M.M. L. Anderson (a cura di), Stranieri di carta, stranieri di voce (pp. 81-90). Roma : Artemide.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11365/1023159