Gli autori analizzano l’evoluzione in atto del distretto orafo aretino con una prospettiva economico-manageriale, volta ad approfondire la natura delle formule imprenditoriali e le strategie attualmente perseguite dalle imprese. Utilizzando i dati di una prima indagine strutturale (IDI, 2004) e di alcune successive indagini congiunturali (IDI, 2005 e 2006) si è cercato di ricostruire il profilo degli attori protagonisti e alcune loro condotte; in particolare, si è provato a rileggere i comportamenti imprenditoriali distinguendo almeno due tipologie aziendali (imprese che lavorano in c/terzi; di marchio). A fronte dei profondi cambiamenti intervenuti nel mercato il sistema distrettuale aretino sembra dare delle prime risposte, ma con una certa lentezza. Il quadro che emerge sembra infatti quello di una sostanziale continuità con i modelli d’offerta ereditati dal passato. Continuano a prevalere formule imprenditoriali tradizionali (piccole imprese familiari poco inclini all’introduzione di manager esterni), fortemente concentrate nel presidio della funzione manifatturiera, meno sensibili a potenziare le funzioni di marketing e decisamente deboli nell’impostare strategie di differenziazione dell’offerta basate sul marchio e sul controllo diretto dei canali di distribuzione (basta osservare la natura degli investimenti effettuati) a differenza di quanto è invece avvenuto nel settore moda. Lo stesso processo di internazionalizzazione è, a prima vista, rimasto incompiuto nel senso che all’elevata quota di export non sono seguite selettive operazioni di investimenti diretti all’estero o strategie di partnership che garantiscono un maggior presidio delle vendite o un miglior controllo di fattori di produzione a basso costo. Ciò a fronte dell’emergere di nuovi concorrenti stranieri che sembrano capaci di imparare rapidamente alcuni punti di forza del prodotto italiano per poi aggredirci nel nostro stesso mercato. Talvolta emergono alcuni elementi di novità, taluni segnali che possono indicare una possibile risposta che, al momento, assume rilevanza a livello di singola impresa, ma che in prospettiva potrebbe assumere natura sistemica. Ad esempio, sembrano emergere nuove nicchie di mercato in cui alcuni operatori si sono specializzati abbandonando i tradizionali materiali e prodotti tipici dell’area aretina (il catename); al tempo stesso i deludenti segnali che emergono dall’effetto crescita delle imprese vanno letti come le conseguenze della pesante crisi del settore ma, al contempo, possono anche indicare una maggiore attenzione allo sviluppo aziendale inteso meno in senso dimensionale (la crescita dei volumi e degli addetti), e più in termini qualitativi (presidio dei canali, valorizzazione degli elementi di innovazione, ricerca del fattore moda). Lo stesso processo di marcata selezione degli imprenditori, se osservato in ottica di medio-lungo periodo, può indicare una maggiore qualificazione della componente artigiana (nella congiuntura negativa si “screma” una popolazione che era cresciuta molto negli anni precedenti). All’interno di questo quadro interpretativo va a nostro avviso riletta “la questione dimensionale” accennata da Fortis nel primo capitolo. Le nostre indagini e recenti approfondimenti svolti nei distretti toscani (Nomisma e Istituto Sant’Anna di Pisa, 2006) evidenziano infatti il diffuso malessere delle piccole imprese distrettuali ma, altresì, anche la situazione di crisi in cui versano alcune medio-grandi imprese italiane a fronteggiare la sfida della globalizzazione. I dati raccolti ripropongono un quadro estremamente polverizzato del modello produttivo italiano fatto di micro-imprese particolarmente flessibili, ma anche fragili nel presidio di alcune funzioni strategiche e di poche medie imprese leader dalle migliori performance economico-finanziarie. Il tema della crescita imprenditoriale è un tema che mantiene intatta la sua attualità: allo sviluppo economico non sempre serve la presenza di un grande impresa, ma è anche vero che la somma di molte piccole imprese deboli non sempre riesce a creare un soggetto forte (Lorenzoni, 1990). A nostro avviso sarebbe più proficuo spostare l’attenzione dall’espressione “grande impresa” a quella “impresa leader”, un attore che può avere anche piccole o medie dimensioni ma che, con attente strategie, può risultare vincente su uno scenario globale magari ricorrendo a formule organizzative “a rete” (piccoli gruppi, alleanze, reti informali, ecc.) che possono articolarsi all’interno e all’esterno dell’area distrettuale. L’emergere di questi attori leader locali e i differenziali di performance rispetto alle imprese distrettuali sono stati evidenziati da recenti ricerche (Bacci 2004; Regione Toscana 2004; Nomisma-Sant’Anna, 2006). La piccola impresa ha finora dimostrato di sapersi ben adattare ai nuovi scenari competitivi rispetto a quella medio-grande ma, come osserva Varaldo (2006), talvolta rischia di ritagliarsi un ruolo subalterno rispetto a logiche imprenditoriali esterne all’economia locale (guidate da grandi griffe del lusso o da operatori della distribuzione). A nostro avviso l’area aretina soffre la mancanza di un maggiore numero di imprese leader che, al di là delle loro soglie dimensionali e settori di attività, presentano una elevata dotazione di risorse e competenze critiche (soprattutto nell’area commerciale e nella progettazione), nonché rappresentano dei soggetti catalizzatori capaci di innescare e guidare processi di sviluppo imprenditoriale su vasta scala (una sorta di impresa “guida” di organizzazioni a rete). Il passaggio da micro a piccola impresa e, soprattutto, quello successivo verso le medio-grandi dimensioni è difficile perché non rappresenta una mera crescita dimensionale, ma è soprattutto un processo evolutivo culturale. Quanto sia difficile questa transizione lo rivela l’analisi dei bilanci nel triennio 2002-2004 dove sembrano avvertire la crisi maggiore proprio quelle imprese “piccole” (che magari hanno superato la soglia dei 10 addetti), che più difficilmente rispetto alle “micro” realtà produttive hanno dovuto sostenere un minimo di investimenti nella strutturazione dell’attività aziendale. La stessa natura dei processi innovativi conferma la prevalenza di logiche adattive (innovazioni incrementali), e la ridotta capacità di dialogo con università, centri di ricerca o con imprese di settori diversi che permetterebbero di praticare innovazioni di tipo radicale o processi di diversificazione trasversali (Zanni-Simoni 2004). Lo stesso rallentamento nell’area delle innovazioni di processo (meccanica orafa), un tempo perno centrale dell’innovazione distrettuale, ha certamente penalizzato le performance del territorio. Tale rallentamento limita la capacità innovativa delle imprese orafe aretine che, in prevalenza, si concentra soprattutto sulle caratteristiche estetiche dei prodotti e sull’ampiezza e profondità della gamma, con una sorta di “effetto compensazione” rispetto alla limitata capacità di innovazioni radicali nei processi produttivi e nei materiali. L’analisi dei differenziali di capacità innovativa tra le imprese orafe del distretto evidenzia l’importanza degli investimenti che allargano il patrimonio cognitivo: le imprese più innovative risultano infatti essere quelle con marchio che hanno ampliato la gamma degli investimenti in risorse umane (non più concentrate esclusivamente nell’area manifatturiera) e in nuove tecnologie informatiche (oggi indispensabile per connettersi alle reti globali di creazione del valore); altrettanto critica si rivela la capacità di sviluppare rapporti di collaborazione con un ampio numero di attori terzi, non limitando il rapporto a meri aspetti commerciali; le maggiori capacità innovative sembrano infine collegarsi alle capacità di export che, probabilmente, permettono di sviluppare nuove forme di apprendimento relazionale superando alcune “strozzature” nei processi cognitivi locali. In sintesi, le variabili rilevanti per lo sviluppo sembrano soprattutto essere: una maggiore attenzione alle formule distributive; il grado di internazionalizzazione; la partecipazione a consorzi; l’intensità e la varietà degli investimenti; l’innovazione, non solo di processo produttivo e di prodotto, ma anche di tipo organizzativo.

Simoni, C., Zanni, L. (2006). I comportamenti imprenditoriali nel distretto aretino tra passato e futuro. In Distretti industriali e nuovi scenari competitivi (pp. 123-176). MILANO : Franco Angeli.

I comportamenti imprenditoriali nel distretto aretino tra passato e futuro

SIMONI, CHRISTIAN;ZANNI, LORENZO
2006-01-01

Abstract

Gli autori analizzano l’evoluzione in atto del distretto orafo aretino con una prospettiva economico-manageriale, volta ad approfondire la natura delle formule imprenditoriali e le strategie attualmente perseguite dalle imprese. Utilizzando i dati di una prima indagine strutturale (IDI, 2004) e di alcune successive indagini congiunturali (IDI, 2005 e 2006) si è cercato di ricostruire il profilo degli attori protagonisti e alcune loro condotte; in particolare, si è provato a rileggere i comportamenti imprenditoriali distinguendo almeno due tipologie aziendali (imprese che lavorano in c/terzi; di marchio). A fronte dei profondi cambiamenti intervenuti nel mercato il sistema distrettuale aretino sembra dare delle prime risposte, ma con una certa lentezza. Il quadro che emerge sembra infatti quello di una sostanziale continuità con i modelli d’offerta ereditati dal passato. Continuano a prevalere formule imprenditoriali tradizionali (piccole imprese familiari poco inclini all’introduzione di manager esterni), fortemente concentrate nel presidio della funzione manifatturiera, meno sensibili a potenziare le funzioni di marketing e decisamente deboli nell’impostare strategie di differenziazione dell’offerta basate sul marchio e sul controllo diretto dei canali di distribuzione (basta osservare la natura degli investimenti effettuati) a differenza di quanto è invece avvenuto nel settore moda. Lo stesso processo di internazionalizzazione è, a prima vista, rimasto incompiuto nel senso che all’elevata quota di export non sono seguite selettive operazioni di investimenti diretti all’estero o strategie di partnership che garantiscono un maggior presidio delle vendite o un miglior controllo di fattori di produzione a basso costo. Ciò a fronte dell’emergere di nuovi concorrenti stranieri che sembrano capaci di imparare rapidamente alcuni punti di forza del prodotto italiano per poi aggredirci nel nostro stesso mercato. Talvolta emergono alcuni elementi di novità, taluni segnali che possono indicare una possibile risposta che, al momento, assume rilevanza a livello di singola impresa, ma che in prospettiva potrebbe assumere natura sistemica. Ad esempio, sembrano emergere nuove nicchie di mercato in cui alcuni operatori si sono specializzati abbandonando i tradizionali materiali e prodotti tipici dell’area aretina (il catename); al tempo stesso i deludenti segnali che emergono dall’effetto crescita delle imprese vanno letti come le conseguenze della pesante crisi del settore ma, al contempo, possono anche indicare una maggiore attenzione allo sviluppo aziendale inteso meno in senso dimensionale (la crescita dei volumi e degli addetti), e più in termini qualitativi (presidio dei canali, valorizzazione degli elementi di innovazione, ricerca del fattore moda). Lo stesso processo di marcata selezione degli imprenditori, se osservato in ottica di medio-lungo periodo, può indicare una maggiore qualificazione della componente artigiana (nella congiuntura negativa si “screma” una popolazione che era cresciuta molto negli anni precedenti). All’interno di questo quadro interpretativo va a nostro avviso riletta “la questione dimensionale” accennata da Fortis nel primo capitolo. Le nostre indagini e recenti approfondimenti svolti nei distretti toscani (Nomisma e Istituto Sant’Anna di Pisa, 2006) evidenziano infatti il diffuso malessere delle piccole imprese distrettuali ma, altresì, anche la situazione di crisi in cui versano alcune medio-grandi imprese italiane a fronteggiare la sfida della globalizzazione. I dati raccolti ripropongono un quadro estremamente polverizzato del modello produttivo italiano fatto di micro-imprese particolarmente flessibili, ma anche fragili nel presidio di alcune funzioni strategiche e di poche medie imprese leader dalle migliori performance economico-finanziarie. Il tema della crescita imprenditoriale è un tema che mantiene intatta la sua attualità: allo sviluppo economico non sempre serve la presenza di un grande impresa, ma è anche vero che la somma di molte piccole imprese deboli non sempre riesce a creare un soggetto forte (Lorenzoni, 1990). A nostro avviso sarebbe più proficuo spostare l’attenzione dall’espressione “grande impresa” a quella “impresa leader”, un attore che può avere anche piccole o medie dimensioni ma che, con attente strategie, può risultare vincente su uno scenario globale magari ricorrendo a formule organizzative “a rete” (piccoli gruppi, alleanze, reti informali, ecc.) che possono articolarsi all’interno e all’esterno dell’area distrettuale. L’emergere di questi attori leader locali e i differenziali di performance rispetto alle imprese distrettuali sono stati evidenziati da recenti ricerche (Bacci 2004; Regione Toscana 2004; Nomisma-Sant’Anna, 2006). La piccola impresa ha finora dimostrato di sapersi ben adattare ai nuovi scenari competitivi rispetto a quella medio-grande ma, come osserva Varaldo (2006), talvolta rischia di ritagliarsi un ruolo subalterno rispetto a logiche imprenditoriali esterne all’economia locale (guidate da grandi griffe del lusso o da operatori della distribuzione). A nostro avviso l’area aretina soffre la mancanza di un maggiore numero di imprese leader che, al di là delle loro soglie dimensionali e settori di attività, presentano una elevata dotazione di risorse e competenze critiche (soprattutto nell’area commerciale e nella progettazione), nonché rappresentano dei soggetti catalizzatori capaci di innescare e guidare processi di sviluppo imprenditoriale su vasta scala (una sorta di impresa “guida” di organizzazioni a rete). Il passaggio da micro a piccola impresa e, soprattutto, quello successivo verso le medio-grandi dimensioni è difficile perché non rappresenta una mera crescita dimensionale, ma è soprattutto un processo evolutivo culturale. Quanto sia difficile questa transizione lo rivela l’analisi dei bilanci nel triennio 2002-2004 dove sembrano avvertire la crisi maggiore proprio quelle imprese “piccole” (che magari hanno superato la soglia dei 10 addetti), che più difficilmente rispetto alle “micro” realtà produttive hanno dovuto sostenere un minimo di investimenti nella strutturazione dell’attività aziendale. La stessa natura dei processi innovativi conferma la prevalenza di logiche adattive (innovazioni incrementali), e la ridotta capacità di dialogo con università, centri di ricerca o con imprese di settori diversi che permetterebbero di praticare innovazioni di tipo radicale o processi di diversificazione trasversali (Zanni-Simoni 2004). Lo stesso rallentamento nell’area delle innovazioni di processo (meccanica orafa), un tempo perno centrale dell’innovazione distrettuale, ha certamente penalizzato le performance del territorio. Tale rallentamento limita la capacità innovativa delle imprese orafe aretine che, in prevalenza, si concentra soprattutto sulle caratteristiche estetiche dei prodotti e sull’ampiezza e profondità della gamma, con una sorta di “effetto compensazione” rispetto alla limitata capacità di innovazioni radicali nei processi produttivi e nei materiali. L’analisi dei differenziali di capacità innovativa tra le imprese orafe del distretto evidenzia l’importanza degli investimenti che allargano il patrimonio cognitivo: le imprese più innovative risultano infatti essere quelle con marchio che hanno ampliato la gamma degli investimenti in risorse umane (non più concentrate esclusivamente nell’area manifatturiera) e in nuove tecnologie informatiche (oggi indispensabile per connettersi alle reti globali di creazione del valore); altrettanto critica si rivela la capacità di sviluppare rapporti di collaborazione con un ampio numero di attori terzi, non limitando il rapporto a meri aspetti commerciali; le maggiori capacità innovative sembrano infine collegarsi alle capacità di export che, probabilmente, permettono di sviluppare nuove forme di apprendimento relazionale superando alcune “strozzature” nei processi cognitivi locali. In sintesi, le variabili rilevanti per lo sviluppo sembrano soprattutto essere: una maggiore attenzione alle formule distributive; il grado di internazionalizzazione; la partecipazione a consorzi; l’intensità e la varietà degli investimenti; l’innovazione, non solo di processo produttivo e di prodotto, ma anche di tipo organizzativo.
2006
9788846482884
Simoni, C., Zanni, L. (2006). I comportamenti imprenditoriali nel distretto aretino tra passato e futuro. In Distretti industriali e nuovi scenari competitivi (pp. 123-176). MILANO : Franco Angeli.
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